“Prima regola del marketing: non uccidere il cliente''
(Don Henderson, vicedirettore marketing della Mickey’s in Fast Food Nation di Richard Linklater)
L’inizio è pop, serigrafico, iperreale. Quasi un richiamo al sogno a occhi aperti di Waking Life. Interno di un fast food, tra Hopper e Happy Days: sul vassoio manovrato con destrezza da una cameriera invisibile ma senz’altro compiaciuta, una generosa porzione di patatine e una super size cola accompagnano il contenitore rosso sgargiante del Big One, il re degli hamburger, nel suo tragitto verso il tavolino dove la famiglia americana tipo contiene la salivazione a stento in un riflesso pavloviano. Tutti sorridono, ogni cosa luccica e riverbera benessere. L’american way of life si fa polpetta e riempie il cuore e lo stomaco in un trionfo di patriottica fierezza proteica. Il film parte dalla fine, dall’ultimo anello della catena, il momento in cui si addenta il presunto panino alla carne, fiduciosi della bontà del sistema industriale occidentale, beatamente inconsapevoli, sia dell’effettiva composizione organolettica, sia dell’intreccio di corruzione e sfruttamento che l’ha reso ospite sgradito dei nostri apparati digerenti.
Fast Food Nation era in concorso a Cannes 2006. Nella stessa edizione, sezione Un Certain Regard, veniva presentato A Scanner Darkly, dello stesso Linklater, tratto da Philip Dick. I due film condividono la medesima visione apocalittica sui guasti prodotti dal sistema del controllo sociale e del libero mercato sulla collettività. In entrambi l’asserto pare essere: liberismo = liberticidio.
Svelare le magagne dell’industria della carne d’hamburger e della ristorazione trash-à-porter non esaurisce il suo scopo nel farci prediligere una sana dieta vegetariana, ma palesa quasi marxianamente la quintessenza dell’economia capitalistica: la centralità incondizionata del profitto. Tutto è consentito per accrescerlo e tutto il resto è d’intralcio, compreso il diritto alla salute del consumatore e dei lavoratori, le protezioni sindacali, il rispetto per la Terra e per l’ambiente, l’etica umanistica nel suo complesso. Con buona dose di onestà intellettuale e senza isterismi radical-chic, ci viene dimostrato che la speranza di un’autoregolamentazione del mercato è un abbaglio, l’illusione suicida di una sinistra fuori rotta, compiaciuta della presunta morte delle ideologie, immobile di fronte alla inesorabile finanziarizzazione delle relazioni sociali.
Scegliendo di ispirarsi all’omonimo bestseller di denuncia anti-hamburger del giornalista Eric Schlosser, il regista texano avrebbe potuto imboccare il cammino ben dissodato del documentario controculturale egocentrico, di scuola Micheal Moore per intenderci, nel cui solco Morgan Spurlock si era già esercitato sul tema con il riuscito Super Size Me, esperimento di obesità controllata attraverso una dieta esclusiva di MacMenù. La forma saggistica del testo di Schlosser si sarebbe potuta sposare a meraviglia con un impianto d’inchiesta testimoniale in cui il cocciuto liberal di turno, improvvisatosi detective militante, avrebbe svelato gli scomodi retroscena dell’industria del fast food al popolo ignaro.
Ma Linklater non ha certo la vocazione del documentarista e, anche per non rischiare di seppellire il suo film sotto cumuli di richieste di risarcimento, condotte dagli studi legali delle catene di fast food, tenta la via più classica della finzione narrativa. L’ambizione è di costruire un affresco d’insieme, un collage di esistenze il cui destino sia in vari modi legato al Big One, mostro insaziabile, a cui c’è chi si vende l’anima, e c’è chi tenta di combatterlo.
Fast Food Nation è un tentativo, parzialmente riuscito – ma non per questo meno dotato di spunti d’interesse – di fornire un contributo a un’epopea nazionale di segno critico, rivisitata alla luce – tetra – del trionfo dell’economia tardo capitalistica.
Per il suo film più impegnato e più impegnativo Linklater fonde inaspettatamente due tradizioni di epica cinematografica indipendente. La prima, genuinamente autoctona, è quella della partitura corale jazzata, tra Altman e Cassavetes. Frammenti di storie individuali si intrecciano attorno a una comunità, a un luogo di lavoro, microcosmi che funzionano da motore di affioramento di dinamiche relazionali, in cui il personale riverbera nel sociale ed è da esso a sua volta influenzato. E quale situazione-tema avrebbe potuto rivelare meglio la natura profonda della società statunitense contemporanea – e di riflesso dell’intero malconcio impero occidentale – di un’analisi spietata sull’industria della produzione e consumo dell’hamburger, nutrimento a stelle e strisce per eccellenza ?
L’altra fonte d’ispirazione sembra essere il cinema militante di matrice inglese, Ken Loach e Mike Leigh (e della cinefilia europea Linklater subisce da sempre il fascino, basti pensare gli ammiccamenti nouvelle vague negli splendidi instant movies Before Sunrise e Before Sunset.) Se infatti le vicende dei lavoratori immigrati nel mattatoio rimandano direttamente al Loach “americano” di Bread & Roses, le riunioni clandestine dei giovani attivisti bianchi riecheggiano lo stile istintivo e naif, documentaristico, delle assemblee dei campesinos in Carla’s Song o degli operai delle ferrovie di Sheffield in Navigators.
Ecco allora dipanarsi vicende a prima vista senza legame. Seguiamo dapprima l’uomo marketing della catena fast food Mickey’s, giovane manager di belle speranze e inventore del Big One, hamburger da poco lanciato con successo sul mercato, al quale è affidata dai vertici della multinazionale, che temono possibili ricadute sulle vendite, la missione scomoda d’indagare sulle responsabilità delle tracce evidenti di colibatteri fecali – leggi escrementi di mucca – presenti nella carne utilizzata per le polpette. Inizia così un viaggio nell’inferno dei mattatoi texani in cui, dietro una facciata di apparente rispetto per i più rigidi standard sanitari, emerge l’inevitabile coacervo di interessi sporchi, mancanza di scrupoli e assoluto disprezzo per il fattore umano. Ma scoprire la verità non sempre corrisponde a una trasformazione dell’esistente. La “core mission” aziendale deve essere perorata, costi quel che costi, e una manciata di batteri nella carne non sono certo sufficienti per far inceppare la macchina.
Se nel ciclo produttivo del mattatoio la cacca negli hamburger è considerata un effetto collaterale trascurabile un po’come le vittime civili delle guerre preventive, possiamo immaginare in quale considerazione sia tenuta la manodopera, “carne umana” senza marchio di qualità, quasi tutta clandestina e
in balia della ferocia del caporalato locale.
Ecco così innestarsi sul corpo della struttura narrativa le storie parallele di un gruppo di immigrati messicani, che dopo aver attraversato clandestinamente la frontiera, vengono avviati al lavoro nero nella catena di macellazione, lavoro infame ma ben retribuito se paragonato ai salari da fame del proprio paese. Certo, la sicurezza è un optional dispendioso, e l’azienda trova più economico lavarsi la coscienza mostrando ai neoassunti video didattici in cui si invitano alla prudenza, di fatto scaricando su di loro ogni responsabilità per eventuali incidenti. Può capitare così che, per non rallentare il nastro trasportatore, anche il braccio di un chicano finisca nell’hamburger, proteine forse meno nobili di quelli di una patriottica vacca texana, ma pur sempre nutrimento cheap.
Mentre il mattatoio continua a sfornare senza sosta polpette sugelate dalla geometrica rotondità grazie alla giovane manovalanza immigrata pagata a cottimo, altri giovani, bianchi americani questa volta, sono costretti dal credo liberista a trascurare gli studi e le aspirazioni, per un lavoro precario dietro il bancone di un ristorante della catena Mickey’s, servendo junk food a orde di candidati all’obesità. Linklater isola una di loro, commessa part time per pagarsi il college, e segue il graduale delinearsi della sua coscienza politica fino alla piena consapevolezza di dover fare qualcosa per salvare sé stessa e il mondo dalle prepotenze dell’ultraliberisimo. Abbandonato il lavoro al fast food, la ragazza decide di unirsi a un gruppo di giovani attivisti che progettano azioni di boicottaggio. E’ in questo momento che il film rivela il suo difetto principale: una disarmante ingenuità, ma lo fa in un modo ancora una volta onesto. L’innocenza e l’inesperienza del gruppo dei militanti riflette lo sgomento di fronte al potere totalitario delle multinazionali. La battaglia è persa ancora prima di essere combattuta perché, crollate le ideologie solo da un versante, non sarà mai più ad armi pari.
Sfuggire il prevedibile sullo schermo è un eventualità sempre più rara in quest’epoca di sterilizzata serialità produttiva. Come se non bastasse le tecniche di marketing spacciate per informazione culturale, rendono il più delle volte l’attività di spettatore rapportabile a quella del consumatore di cibo spazzatura. Richard Linklater ci ha certamente spiazzato con un’opera difficile, che probabilmente rappresenterà uno spartiacque nella sua filmografia, determinando il passaggio dall’adolescenza alla maturità artistica. Un cinema indipendente, il suo, che ha sempre oscillato tra moderata sperimentazione linguistica e attenzione per il pubblico più giovane al box office, tra cinefilia ed estetica da teen movie. I temi sul tappeto sono complessi, ben al di sopra della capacità del regista di esaminarli con gli strumenti di un’analisi politica, che quando viene tentata, si rivela ingenua e superficiale. Ma il punto sta proprio qui e la debolezza del film è anche la sua forza: i giovani idealisti che cercano di fare qualcosa per distogliere “i cattivi” della terra dai loro propositi di sfruttamento e di dominio, brancolano nel buio proprio come il regista stesso, e come chiunque di noi abbia a cuore i problemi del pianeta ma non disponga più di attrezzature concettuali per affrontarli.
Ciò che rimane alla fine, più che i brandelli di immagini atroci di macellazione, è la sensazione di inadeguatezza e di sconfitta che si impadronisce del commando dei ragazzi no-global allorché, aperto il recinto dell’allevamento per tentare di restituire alle mucche una pur precaria libertà, si rendono conto che le bestie, terrorizzate, non ne vogliono proprio sapere di scappare. In fin dei conti si trovano bene nella loro condizione di schiavitù: ben pasciute e accudite, vivranno un’esistenza tranquilla di consumatrici obbedienti, fin quando non giungerà anche il loro momento. Qualche riferimento a noi altri sudditi dell’impero?
mi hai fatto venir voglia di non perderlo. Mi dici qualcosa in più sugli instant movies? Altri titoli significativi, ad esempio.
Cinema che sembra girato in poche ore, senza starci troppo a pensare. Dichiara solitamente un’urgenza espressiva. Oggi al limite basta un telefonino. Ma l’effetto spontaneistico può essere ottenuto con calcolo e ricercatezza. Basti pensare a Shadows, a un certo Romher, ai vari Dogma, agli italiani degli anni’70 ispirati dai fatti di cronaca. Di Linklater ti consiglio, se riesci a scovarlo, Suburbia.
sono rimasta scioccata. credo che nn mangerö carne per un bel po´!!