Come l’ombra è un film di genere autoriale. Il suo aspetto presenta le seguenti caratteristiche: periferia senza nome, massicce dosi di silenzio, poche parole, una narrazione lenta. Sia gli spazi al chiuso che quelli all’aperto palesano una condizione di malessere umano e sociale. La macchina da presa tende a sfruttare tutte le potenzialità dell’immagine e dell’inquadratura. Col rischio di trasformarle in una forzatura. I personaggi risultano tristi, soli, sconfitti. I rumori incitano al disagio, gli arredi, gli asfalti e gli oggetti fanno lo stesso. Le tematiche sono scomode e attuali come in tanto giovane, serissimo, angosciante cinema italiano: immigrazione clandestina, fallimento del rapporto umano, ambiente ostile, crollo dell’aspettativa, della speranza, della possibilità. Un volto si accosta a un finestrino, un paesaggio scorre sui pensieri e le considerazioni negative. Titoli di coda.
Se è omologazione il linguaggio dei film da botteghino e di quelli da domenica nel multisala, beh, può esserlo anche quello dei film di qualità. Ci sono tanti lavori e tanti autori che parlano “da Festival” e che nascono per soddisfare, prima che gli altri, il palato dei ragionatori di cinema. Il loro sforzo vale la soddisfazione di un’applaudita proiezione stampa e di qualche articolo rassicurante. E’ fondamentale non far ridere e chiarire ai professori che Antonioni è il maestro primo e che le nouvelle vagues sono una passione gridata (e gridabile) a tutta voce. Basta associare impegno e antitelevisione e nessuno griderà all’osceno. Al massimo qualche “incinefilo” malcapitato parlerà di “dupalle” o di “andò mai portato..”, ma si esprimerà con intelligente cautela e sentirà la colpa della sua ignoranza saltargli addosso ad offuscargli le verità. Esistono film che fanno dell’autorialità il loro biglietto da visita e il loro salvagente, e che abbracciano un solco lontano mezzo secolo per ingraziarsi i favori di una fetta di pubblico. Un’approvazione ristretta ma ottenibile grazie a un’ipocrita poca considerazione del pubblico stesso, in nome di una propria esigenza autoriale a volte priva di reale spessore artistico. Il film “d’autore”, in certi casi, diventa il veicolo per un viaggio planetario fatto di rassicurazioni, festival narcisisti in cerca d’autore, salotti, pacche e consensi. Quel film servirà a far diventare “autore” e “cineasta” un artigiano non necessariamente interessante da vedere all’opera. Non si vuole incolpare Come L’ombra (dell’esordiente Marina Spada) di essere il frutto di tanta dietrologia, ma certo è che il film della regista somiglia tanto a molti esempi di cinema italiano giovane, freddo e impegnato. Se questi film non esistessero non ci sarebbe sospetto, malizia e nemmeno questa tiepida accusa. Ma, purtroppo e al tempo stesso per fortuna, certi film esistono e hanno, assieme ad una loro indole comune, anche una logica e un mercato.
Risulta impossibile una visione e un giudizio su Come l’ombra che prescinda dal rapporto con la realtà del polo “debole” del cinema italiano. E’ indubbio che esista un bipolarismo cinematografico fatto di autorialità e di popolarità. Potremmo giocare con le scatole di destra e di sinistra: di “autori” che sputano sul qualunquismo e sulla superficialità degli avversari (contro cui non combattono) e di registi “da produzione” che lamentano (solo se interrogati) un fanatismo muto e pieno di arie sulla riva opposta. Se fanno loro girare le palle chiudono ogni discussione con i numeri portati dalla gente. Di questa guerra inutile traggono vantaggio quei centristi abilissimi a sfruttare l’elettorato di sinistra e quello di destra con romanzoni storico-sensuali. Sono gli inventori dei film “gita impegnata”, musicaleggianti e bellocci, furbi a sedurre la destra indisciplinata e svogliata e capaci di neutralizzare la sinistra diligente e studiosa. Immaginiamo un astratto campo politico e osserviamo da una parte i contenutismi tristi ed estetizzanti dei filmmaker e dall’altra l’abbondanza e la rapidità di gesti e di parole, una gettata di presente senza opinione e riflessione, e la vecchia risata grassa e classica. Gli autori lamentano un sacco di ingiustizie ma non hanno voglia di rinunciare ai crismi che li caratterizzano, che danno loro un nome e un’etichetta e che aprono loro le porte di un certo giro. I registi confezionatori, invece, che non ce l’hanno coi colleghi come questi ce l’hanno con loro, sostengono che la realtà viene prima della sua interpretazione, o della sua distorsione. L’osso è ben saldo nelle loro fauci irrobustite dalle risposte popolari e dai budget che certe produzioni mettono nelle loro tasche. Nelle mani degli autori, invece, finisce quel piccolo prezioso pubblico da linguaggio e post visione. Meno passivo di quello da blockbuster e perciò, speriamo, capace di vedere in Come L’ombra, la falsa riga, il calco, la maniera di una moda cinematografica.