In fin dei conti, sono prigioniero di un’alternativa: o viaggiatore antico, messo di fronte a un prodigioso spettacolo di cui quasi tutto gli sfuggiva – peggio ancora, gli ispirava scherno e disgusto – o viaggiatore moderno, in cerca di vestigia di una realtà scomparsa. Nell’un caso e nell’altro, sono sempre in perdita, e più che non sembri: poiché, io che mi rammarico di trovarmi davanti a delle ombre, potrei forse comprendere il vero spettacolo che prende forma in quell’istante, o il mio grado di umanità manca ancora della sensibilità necessaria?
                                                                                                               
                                                                                                         Claude Lévi-Strauss, Tristi tropici, par.4

La Chimera di Alice Rohrwacher è un film così bello che si avrebbe voglia quasi solamente di parlare dello splendido poster che ricalca i tarocchi in azzurro pastello, crema, arancione e verde spento – l’affiche di un film deve bruciare gli occhi, stordire incuriosire flirtare con gli occhi, riallacciarsi a qualcos’altro, entrare in una famiglia, insomma dev’essere quello che per Benjamin era il titolo di un libro, saturi come siamo di prodotti di consumo…
Battute a parte, l’indecisione tra una declinazione poetico-politica del film, o una secca analisi formale, è forse un buon inizio, e a questa impasse si possono additare già pregi difetti desideri e possibilità della massima espressione di una certa ricerca cinematografica italiana antiteatrale e colta, con precisi riferimenti, moraleggiante, letteraria e femminista. 
La storia è semplice: tra Toscana, Umbria e Lazio (la Tuscia), alcuni tombaroli, guidati dalle doti sensoriali di Arthur, trafugano tombe antiche e rivendono i manufatti a un ricco e misterioso acquirente, Spartaco. Arthur, peraltro, vive la tragedia della morte della donna amata, Beniamina, mentre comincia a innamorarsi di Italia, allieva della madre di Beniamina, che insegna pianoforte.
Mi ha sorpreso leggere tante recensioni così diverse e tante critiche “oggettive” al film. Si è in sostanza detto che è un film bello, ma meno dei precedenti, più compiuti e perfetti perché più liberi, più anarchici (?). Non so davvero quanto possano essere fondate osservazioni di questo tipo su un cinema che promette una storia a partire dai non detti e dove la funzione narrativa dei movimenti di macchina è tale da consentire entro certi limiti l’utilizzo di una scrittura ellittica e non consequenziale. E’ vero che Rorhwacher crea, volontariamente o meno, opposizioni poco simpatiche del tipo campagna-città, antico-moderno, umili e civilizzati, mercanti d’arte e tombaroli; tracce facili e schematiche che appartengono semmai al cinema opposto al suo. Credo che questo sia dovuto a una questione di fondo irrisolta: come in “Futura” e in generale anche nelle opere di Pietro Marcello, si avverte una raffinata ingenuità ideologica, o come un rifiuto dell’ideologia in nome di un qualcosa da ricostruire che venga/che arrivi/che sia prima. Una sorta di pre-ideologico da ritrovare, quel basilare umanesimo (la fiammella della candela di Nostalghia di Tarkovskij, per definirlo con un’immagine immortale), gli affetti e gli amori, le arti e la bellezza, il sogno e il passato. La loro ricerca che risulta uno dei momenti centrali del loro cinema-finzione, del loro documentario, del loro cinema essai. Si può essere in disaccordo ma non trovo questa impostazione del problema banale.
Lo sguardo obliquo di Alice Rohrwacher è talmente potente che il suo cinema risulta un curioso intreccio di narrazione e poesia. Chi scrive adesso tende a perdere sempre i “fili della storia”: il finale della Chimera ha rischiarato tutto quello che lo ha preceduto, lo ha reso bello di un’altra luce – di una luce spirituale, non tanto riguardante le invenzioni formali, pur avendo io amato quei momenti di cinema impossibile che sono la costellazione del film. Ho ritrovato nella Chimera le lunghe penitenze che l’amore chiede all’amante sopravvissuto. Così il protagonista, chiamato dai paesani “l’inglese” (Arthur, interpretato da Josh O’Connor) vagola tra campi e tombe disorientato, monco, come se il suo pensiero girasse a vuoto. Ho tremato quelle due o tre volte, un po’ casuali, dove il flashback (ma non sapremo mai se quei frammenti sono memoria o irrealizzabile sogno a occhi aperti) lo ricongiungeva a Beniamina, la donna che amava e che è morta. Gli amori disperati hanno sempre qualcosa da dirci, credo: sono una forma tra le tante che indagano il superamento del lutto. “Alcune anime sono pesanti, altre leggere; alcune sono libere o capaci di essere liberate, altre no”.
L’unico malumore tra straordinarie interpretazioni (in particolare Vincenzo Nemolato, Carol Duare e una superba e suprema Isabella Rossellini) è stata la domanda che mi è venuta quasi spontanea: “Alice Rohrwacher ha mai visto qualcosa di brutto?”
Se lo domandava Hebbel di Raffaello. Chimera è termine pericoloso, è il negativo di utopia. C’è come una pudicizia eccessiva con il presente e con le sue contraddizioni; c’è un costante scivolar via da ogni scontro frontale con l’oggi. Il rischio del film è quello di fare una specie di spot al concetto di passato, di darne una visione confusa e unilaterale, diciamo “astorica”. Persino Straub cadeva in ingenue apologetiche sui contadini dei bei tempi andati, sulla loro intelligenza rispetto alla betise di massa (quella televisiva, quella dell’organizzazione dello spettacolo) del tardo capitalismo. Per scriverne diffusamente servirebbero pagine e pagine. La relazione col passato e coi passati, oltre ad esprimersi in diverse modalità, differenziate peraltro da accenti vuoi valoriali, vuoi storici, vuoi ideologici, vuoi estetici, è problematica di per sé, perché è l’incontro di due mondi (più che tempi) con contraddizioni diverse, e non ci sono criteri univoci per affrontarli. Il rischio è di pensare che “forse era meglio prima”.
Ma la grandezza del film resta, vivifica le cose dimenticate, e questo conta.

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