Buio
Acquario di quello che manca
Acquario di quello che manca
Bassi ripetuti, variazioni, voce che ritualizza un sintagma, che rende presente la sua stessa presenza –ricentra la perdita di presenza, riterritorializza il caos, accelera linee di fuga, perde di nuovo il filo
Cieche, come sono cieche le creature che calpestano la terra
Ballano senza sapere perché
Si insegna a fuggire con le pupille aperte
In occasione della prima romana –proiezione domani, mercoledì 3 maggio alle 15.30 presso il cinema Intrastevere, all’interno della prima edizione dell’Unarchive Found Footage Fest, sezione concorso- pubblichiamo la prima parte di una conversazione con Armando Andria, produttore esecutivo di Gli ultimi giorni dell’umanità, film d’archivio di Enrico Ghezzi e Alessandro Gagliardo, presentato a Venezia 2022, registrata durante una magnifica mattinata di sole negli spazi del Dipartimento di Architettura dell’ex Mattatoio di Testaccio, Roma.
AB Iniziamo con una domanda semplice. Tu sei il produttore esecutivo di Gli ultimi giorni dell’umanità. L’esperienza di questo film è iniziata subito con un ruolo, quello appunto di produttore esecutivo, o invece… Insomma, come è stato il tuo inizio con loro?
AA L’inizio è stato l’incontro con alcuni soggetti. Ed è accaduto all’Asilo (l’ex Asilo Filangieri di Napoli). Incontro Alessandro Gagliardo, credo fosse il 2018, che era lì per un altro progetto, di cui se vuoi possiamo parlare
AB Sì, raccontaci
AA Era un progetto connesso, chiamato Cubotto. Che è appunto il progetto della messa in rete di archivi sostanzialmente popolari, dal basso, di movimento. Il progetto che Alessandro stava curando attraverso vari soggetti culturali e politici in Italia: passato per Macao, poi con pezzi del Valle, quindi arrivato a Napoli. Nel tentativo di collegare questi nodi, in questa fase stava allestendo e preparando la creazione di un nuovo archivio napoletano mettendo insieme sia i piani informatici e tecnici che quelli politici e comunitari. In quanto a Napoli c’è un grande archivio non visto, non utilizzato, di movimento, delle lotte, dagli anni ’90, la fase pre Genova
AB Tenuto da vari soggetti? Associazioni, singoli…
AA Sì. Associazioni, singoli, sedi di partito…
AB Questo, e tornerà dopo, è significativo anche per capire che nella storia di Alessandro, e in quella intrecciata con altre e con altri e poi con voi, è molto viva la pratica dell’archivio
AA Vuoi proprio una cosa ‘pulita’?
AB No, come ti pare, per me il modo di portare avanti la pratica archivistica è importante per capire il rapporto che aveva Alessandro con Enrico e a che punto era il loro progetto nel momento in cui ti hanno incontrato
AA La pratica degli archivi che dici era, più precisamente, la pratica dell’anarchivio. Quindi tutta una visione di destrutturazione dell’archivistica intesa come monumentalizzazione, come istituzionalizzazione, come musealizzazione della memoria. L’anarchivio, allora, come possibilità pratica di dare vita e corpo a dei racconti destrutturati che vengono dalle persone e in questo modo dare anche vita a una nuova concezione e ipotesi di storia
AB Penso al lavoro di Janikian e Ricci Lucchi, che tramite la destrutturazione degli archivi veicolano una posizione estetica e insieme etica della memoria. Una lettura in contropelo della storia…
AA Sì, certo. Alessandro insomma viene da lì. Cito alcuni lavori, in particolare Antropologhia e I siciliani, che sono progetti autoprodotti, battaglieri insomma, che nascevano anche nell’esigenza di tenere insieme la dimensione politica, la dimensione artistica, quella etica e di militanza, di attivismo. E perciò l’Asilo diventa un luogo d’incontro molto significativo per questo progetto, in quanto tentativo di punto di incontro di queste varie dimensioni… Finalmente, no? Rispetto ad esperienze politiche insoddisfacenti, o ad esperienze artistiche insoddisfacenti
AB Vi siete incontrati, quindi, e lo dico non per riassumerla ma per dargli una parola, dentro il territorio e l’ambito dell’attivismo…
AR Eh, dell’attivismo sì, però di un attivismo che è già attivismo artistico e culturale… Cioè non credo ci sia bisogno di metterci un’altra parola vicino
AB Dicci qualcosa in più su questo, se puoi
AR Sì, perché la questione è quella di provare a non separare le dimensioni della vita, diciamo così, che sono entrambe necessarie. E per Alessandro, certo, perché è un artista, ma anche per persone come noi, con la nostra storia. Le dimensioni sono appunto quelle del senso politico di agire e del proprio fare, nel presente e nell’esistente, e quindi appunto dell’avere la percezione e la consapevolezza che la propria azione si inserisce dentro una possibilità di trasformazione, una possibilità di coscienza…
AB Mi viene in mente la “soggettività politica” di Arendt…
AA E dall’altra parte l’esigenza di dare corso a una visione, di trovare una forma, di plasmare, cioè, questo esistente in una azione artistica. Dette così sembrano ancora separate, ma in realtà il tentativo è quello di riunificare attraverso la pratica queste due dimensioni. E l’Asilo lo identifico come luogo in cui questo è potuto accadere
AB Che è qualcosa di diverso dal ‘movimentismo’
AA Sì, esatto
AB Ed è anche un modo pieno di agire e di vivere, e per questo pensavo ad una soggettività politica. Cioè non può che essere così. La soggettività non può esistere che in questo modus per essere piena, per produrre una vita attiva… Queste modalità, queste pratiche, sono ciò che le restituisce questa forma e non un’altra, che sarebbe più triste forse…
AA Sì, e lo deve diventare per non tornare ad essere autoriferita, solo autoriflessa, insomma falsa…
AB Ne vale anche della nostra creatività, d’altronde proprio poco fa parlavi anche dell’aspetto di novità, perché soltanto in questo modo sarà poi possibile produrre qualcosa di nuovo, qualcosa che stia anche in rapporto con la memoria e con le pratiche, e in questo allora tornano anche le pratiche archivistiche, le pratiche di verità…
AA Tu dicevi della differenza… Ecco, tutte le esperienze degli anni ‘90 e ‘80, da cui alcuni di noi veniamo, che abbiamo toccato, certo interessanti e meritorie, fondative anche, però erano esperienze, da un lato, di un politico, come dire, anche se vuoi un po’ sacrificale, punitivo diciamo, con retaggi se vuoi anche religiosi, cattolici, in cui la militanza è un’esperienza di sacrificio, di dedizione…
AB E con, dall’altra parte, lo svuotamento della politica istituzionale, la cui richiesta è stata e continua ad essere quella di stare dentro compromessi e utilità, mali minori e rimozioni…
AA Io faccio spesso questo esempio, che penso funzioni: se noi negli anni ‘90 andavamo alla rassegna di cinema organizzata dallo spazio occupato, era chiaro, dal contesto in cui eri, dal modo in cui veniva presentata la proposta, spesso anche dalla selezione dei film, che la questione era avere, diciamo, dei supporti, per portare avanti un discorso politico, in cui il momento artistico era del tutto ancillare, non c’era una pienezza, diciamo, di questa cosa. Quindi vedevi film a volte anche brutti, tipici di un cinema civile e impegnato dell’epoca, e prima ancora li vedevi male, proiettati su un muro, o sulla televisione, con sedie scomode…
AB Sì, forse in quel periodo c’era anche una certa cultura della marginalità che oggi non c’è più, o c’è meno… Non dico che oggi si ricerchi l’egemonia, per usare grandi categorie, ma negli anni che hai citato c’era forse una certa estetica, un po’ decadente, della marginalità. Un isolamento, aggiungo. Mentre poi l’attivismo, che comprende l’esperienza dell’Asilo e quella maturata intorno ai beni comuni, ha posto la domanda, che forse bruciava, di riprendersi una centralità nello spazio pubblico, che è poi la condizione di possibilità, lo dicevamo prima, di una soggettività più felice… Che ne pensi?
AA Sì, anche se marginale mi fa pensare subito a minoritario…
AB No no, minoritario ci piace, si può destrutturare e bene con gli strumenti egemoni che si trovano in giro… Dicevo del marginale come di quell’incedere che, e forse paradossalmente, indulge in troppa separazione e altrettanta conservazione. Il minoritario deriva non tanto o non solo da una scelta: ti hanno escluso e allora – pensiamo alla letteratura, alla lettura di Kafka fatta da Deleuze- ci si appropria della lingua di chi ti ha reso subalterno e la si utilizza, la si destruttura, ci si fa qualcos’altro, qualcosa di nuovo, ci si fa un nuovo archivio… Ti ritrovi?