Si era già fatto notare al festival di Torino del 2000 con il documentario Ragazzi del Ghana su due calciatori immigrati dall’Africa, ma con L’aria salata Alessandro Angelini realizza il primo lungometraggio vero e proprio e si conferma un regista da tenere d’occhio. Giorgio Pasotti, un ragazzo che lavora nel carcere per favorire il recupero dei detenuti, si imbatte in un uomo ruvido nel quale non tarda a riconoscere suo padre, finito in carcere per omicidio pochi anni dopo la sua nascita. Ne segue un rapporto drammatico, pieno di sentimenti contrastanti e di rese dei conti, in un arduo tentativo di riconoscimento reciproco. Il film è molto intenso, concentrato, e ciò che colpisce è soprattutto la figura del padre, un uomo sconfitto e incattivito ma ancora capace di commuoversi come un bambino. Colangeli, un attore teatrale sconosciuto al grande pubblico, lo interpreta con grande bravura mentre Pasotti, forse memore dell’esperienza mucciniana con L’ultimo bacio, è spesso sopra le righe.
Ciò che brilla per la sua assenza, come ormai si nota con costanza nella quasi totalità dei film prodotti da Raicinema, è il contesto sociale, il momento storico. Sappiamo solo che il padre è cresciuto in una periferia povera e malfamata presumibilmente di Roma (lo desumiamo dall’accento) ma per il resto la storia dell’Aria salata, titolo piuttosto gratuito vista l’ininfluenza dell’ambientazione ligure rivierasca, potrebbe svolgersi in qualsiasi altro posto del mondo, tra un qualsiasi padre e un qualsiasi figlio. Come se il fatto di concentrarsi sui sentimenti umani universali togliesse la possibilità di raccontare, nel frattempo anche un pezzo d’Italia.