Recentemente mi è capito di vedere uno di quei di film di Marco Bellocchio realizzati in un periodo che potremmo definire transitorio e di sperimentazione/ricerca tra la stagione dei grandi film iconoclasti nel decennio degli anni di sangue e piombo (da I pugni in tasca del 1965 e Marcia trionfale del 1976) e una nuova primavera di vitale e anche gioiosa libertà immaginifica e lucidità d’analisi delle dinamiche e dei corto-circuiti delle relazioni all’interno di codificate strutture di potere, cominciando proprio da L’ora di religione nel 2001. Il film di cui parlo, invece, è La visione del Sabba, e siamo in piena epoca della collaborazione con lo psichiatra Massimo Fagioli, che per Bellocchio è stato interlocutore sia dal punto personale che da quello artistico e, in alcuni casi, co-autore di soggetti e sceneggiature (Il diavolo in corpo, La condanna, Il sogno della farfalla).
Questa lunga parentesi, una sorta di grande work in progress dentro il quale i protagonisti del cinema bellocchiano esplorano le derive e non tanto gli approdi verso cui possono spingere le pulsioni di desiderio, di vita e di morte nel momento in cui viene tolto loro il coperchio contenitore di un contesto riconoscibile e rassicurante, è considerata forse come un momento oscuro e non molto visto nel percorso di uno dei pochi cineasti italiani in grado di stabilire una relazione profonda e perturbante tra immagine, pensiero e pulsione: in realtà non ho potuto fare a meno di pensare proprio a La visione del sabba, vedendo questo suo ultimo Sangue del mio sangue e non tanto per un’affinità tematica (in entrambi si parla di un caso di stregoneria) o per la visione ravvicinata dei due film. Il processo di associazione non è stato così logico, così consequenziale, questo probabilmente non avrebbe provocato lo stato di turbamento con cui, da una certa immagine in poi, è proseguita per o meglio su di me (e non uso casualmente una forma verbale intransitiva) la percezione del film: tutto si è manifestato con la figura di una donna appesa a testa in giù, come se si trattasse della carta di un tarocco vivente, all’interno della cella di un convento. La stessa immagine, violentemente iconografica e stigmatizzante di un‘epoca, che compariva, con eguale forza e suggestione, ne La visione del Sabba, con un’altra donna accusata di stregoneria ed esposta allo sguardo impietoso e feroce, nella sua omologata e ferrea presunzione di virtù e giustizia, di una giuria di rappresentati della Santa Inquisizione. Un’immagine esplosiva in entrambi i casi dove vanno ad incontrarsi e a scontrarsi i segni di un mondo dilaniato dal conflitto tra ordine e caos, desiderio e repressione, istinto e rimozione e la location, nel caso di “Sangue del mio sangue”, il monastero di Santa Chiara a Bobbio, con i marcati e imponenti portoni che, aprendosi e chiudendosi, fanno passare gli ambienti cunicolari da una condizione di buio e luce come se attraversassimo in continuazione un sogno o un incubo e che il tempo e lo spazio della realtà fossero stati inghiottiti dalla viscere di un luogo evidentemente molto caro alla memoria di Bellocchio e della sua storia famigliare (e il suo cinema, come accaduto nel recente Sorelle Mai, sente la necessità di tornare a casa, a Bobbio) e allo stesso tempo trasfigurato dall’assoluto di una concezione circolare dove tutto torna, si ripete, si duplica e si moltiplica, si rispecchia, si riconosce e si confonde.E specularità e simmetrie con La visione del Sabba ce ne sono altre a cominciare dal rapporto tra il passato e il presente, dove la “strega” Beatrice Dalle si ripresenta nel tempo del presente come paziente psichiatrica e con la sola forza della presenza e dello sguardo, getta nel magma indistinto di fuoco, carne e passione Daniel Ezralow, assai poco credibile come psichiatrica ma così predisposto fisicamente ed emotivamente a perdere il controllo e a farsi contagiare dalla “pazzia”. Di tale sortilegio è fatalmente vittima pure il personaggio interpretato da Pier Giorgio Bellocchio nella parte del “passato” di Sangue del mio sangue, fratello del sacerdote sedotto e spinto al suicidio dalla suora “posseduta” , e che vorrebbe riabilitare la memoria famigliare costringendo la donna ad assumersi la colpa di quella morte, visto lo status di peccato mortale con cui il suicidio veniva e viene tenuto in considerazione dalla Chiesa. Questo spunto narrativo viene però presto dimenticato o, restando in una terminologia psicanalitica, rimosso perché ben presto comincia a sprigionarsi un’atmosfera di sensualità e desiderio che, come una nebbia, avvolge i loculi e le stanzette del convento, i boschi e i fiumi della natura circostante, un’energia destabilizzante che scardina piani, strategie e giochi di potere e immerge e avvolge il cavaliere seicentesco con le fattezze del Bellocchio figlio dentro una dimensione al color bianco, rivoltando la percezione dell’immagine di una donna appesa a testa in giù nella prospettiva di un potere patriarcale della repressione e dell’obbedienza schiacciato e vinto dall’impulso al piacere e all’eros (e ancora una volta, archetipicamente, il corpo della donna si fa “verbo” per questa religione altra dell’amore, apocrifa e rivoluzionaria).
Dov’è che La visione del Sabba e Sangue del mio sangue e, di conseguenza, il percorso di Bellocchio in momenti diversi della sua vita di uomo e cineasta, prendono direzioni diverse? Proprio in quel contatto tra “passato” e “presente” che nel film con la fattucchiera, stregonesca, magica Dalle perde progressivamente i propri confini fino ad una fusionale ed ostica, almeno per lo spettatore imprigionato in gabbie e categorie razionali, sovrapposizione tra presente, passato e immaginazione mentre in quest’ultimo ritorno alle origini nell’amata Bobbio si traduce in un’appendice più leggera e spensierata, di quella gioiosa libertà di cui parlavo nell’incipit per il periodo post Fagioli, e che gli permette di trasformare lo stesso attore (sempre Bellocchio figlio) da cavaliere in traffichino dei giorni nostri e mutare la destinazione abitativa di quel convento da luogo di clausura con un vissuto carico di dolore, risentimento e tensione di vita e di morte, a fastosa residenza di un eccentrico conte vedovo, quasi un clichè dello scrooge del “racconto di Natale” dickensiano, che aspetta di essere toccato da una luce di bianco abbagliante per uscire dall’isolamento oscuro in cui si è ritirato e fare un gesto di pura, gratuità bontà.
La vivacità e l’audacia con cui Bellocchio mette insieme un doppio registro drammaticogrottesco è sicuramente il frutto maturo raccolto dopo averlo frequentato nella felice ultima stagione del suo cinema, in particolare quel piccolo gioiello di surrealismo e libertà che è Il regista di matrimoni.
Ma questa apparente dissociazione di tono e di atmosfera nasconde un legame segreto, che attraversa il tempo e lo fa ripiegare su stesso, affermando con un colpo di mano e, diremo, di regia che la forza del Desiderio ed il suo imperativo (“Io sono l’amore”) non possono essere contenuti dentro una cella di muratura, evadono i vincoli, ripetono i rituali del gioco e della seduzione – la corsa infinita e “multiplicata” dei due giovani innamorati per le scale e le stanze del convento con il vecchio conte che li insengue e non riesce a stare al loro passo -spingendo fino ad un punto di rottura il contatto tra passato e presente, tra vita e morte, tra innocenza e decadenza.
Binari, binari e ancora binari su cui lo sguardo di Bellocchio continua a scorrere alla ricerca di un equilibrio magico tra il turbamento di un’intensità visionaria e il bacio della grazia e dell’ironia.