Il mio giornale ha uno zoccolo duro di pubblico colto, che non sopporta di essere preso in giro… o lavoro per lo zoccolo.
Flaubert voleva scrivere un romanzo sul niente non ci è riuscito… ci posso riuscire io?
In ascolto di uno stimolante dibattito su Il gabbiano di Cechov, sua versione moderna arricchita di marionette regionalparlanti o dal nordico accento, di esistenze scialate e inconsapevoli e pertanto urlate ammiccanti e disarticolate sulla scena, quasi che l’autore si sia disperso disaggregato nelle molteplici anime del medico annoiato, dello scrittore in crisi che non sfugge alla piccina ‘primadonna’, del giovane inetto artista di materno affetto privato, della ragazza delusa dalla vita amorosa, di chi ama non riamato, del gabbiano morto – che però alto ha volato … non mi soccorre quanto sovvenne nell’immediatezza della visione teatrale sul magico Vascello: un brano musicale struggente armonioso, contemporaneo, fatto anche di archi, tratto da La Grande Bellezza. Ma ora, di seguito, il definitivo ‘in tentativo’ pezzo di commento all’Opera di Paolo Sorrentino. Regista autore che di visuali di e da terrazze, piazze, luoghi sordidi o magici o stranianti riempiti di strambe bruttebelle persone ci ha dato la diretta continuata, estenuata, deformata lungo tutti questi – orridi – anni.
Quante volte di preciso vidi Le conseguenze dell’amore non so dire. Film che come nessuno riesce a dare peso e corpo a ciò che non ne ha: gesti sguardi riflessi luci fumo vapori colori temperature suoni rumori mezzeparole silenzi pause. Film che si regge sulla virtù dell’assenza, più forte presenza sia per l’amicizia che per l’amore. Il pensiero fuggevole ma ritornante ci può cogliere sulla vetta di un traliccio investito da venti gelidi, nel bar più elegante ovattato, sulla gru che ci cala insalsicciati verso l’ultimo abbraccio del cemento ritorsivo. Ma sempre e comunque giustifica il sacrificio; e la vita che i personaggi si trovano a vivere, minuto per minuto, per quanto scialba o triste o perigliosa essa possa essere. I movimenti di macchina, i campi e controcampi e le ‘stupefacenti’ inversioni di campo fisso sono al servizio della consumata abilità più che teatrale e più che naturale del protagonista – nella ‘fiction’, titta di girolamo. Colonna sonora affidata a pasquale catalano – a saturare gli spazi non sublimati dalla electro-techno-wave di gruppi assai evocativi – ‘lali puna’ e ‘mogway’ su tutti. Le azioni efferate stralunate dei protagonisti e dei minori si muovono in perfetto accordo con le note, anzi le abbracciano idealmente in un sinestetico biunivoco fulgore. L’uomo in più vive invece di parallelismi e di contrasti, tra le figure omonime non omologhe dei pisapia chansonnier-calciatore in bilico tra grossolana sfacciataggine e adamantino rigore. L’approfondimento dei personaggi fu poi ospitato dalle prove letterarie di ps regista – non esaltanti invero nel narrare le gesta di toni pagoda&friends. Film di esordio da molti osannato, si scolora invece a paragone dei due successivi, vere perle rare se non uniche del panorama italiano e internazionale recente. Non solo per le straordinarie sommesse incarnazioni di Toni Servillo e Giacomo Rizzo.
L’amico di famiglia a mio avviso il più riuscito della pur notevolissima produzione del Nostro. La stratosferica interpretazione del personaggio geremia De (:o de’, data la nobilissima loquela sfoggiata) geremeis conquista e avvince attraverso la professata devozione al potere taumaturgico della parola, che tutto guarisce medica consola, in cui risiede l’origine e causa prima di ogni relazione contatto fascinazione – superando quindi la logica afasica eminentemente ‘visiva’ del capolavoro svizzero-locato, affidato al timido titta ragioniere,negoziatore di petroliere. Il ‘gigante’ curvo e saltellante protagonista compensa le storture fisiche e morali muovendosi nelle rigorose geometrie di una latina fascista e dechirico-metafisica, catturate dalla camera e popolate dalla umanità volgare e senza scrupoli in cui si muove il pantheon di comprimari brutti e storti nelle intenzioni al pari di lui geremia, pur se portatori di volti espressivi intensi o levigati corpi – quelli dell’ottimo Bentivoglio e della gradevole Chiatti, persino della ‘in summa’ trascurabile Lodovini.La colonna sonora spazia e cattura lo spettatore saldando costumi volti azioni e luoghi in amalgami di perfetta ambientazione, di volta in volta ruotante scalciante al ritmo country-western o a quello marino, truffaldino, cittadino provinciale (musicalmente preziosi, pur se effimeri a paragone di Bach o Mozart, i ‘colorado ranch’ con “every single word”e i ‘the notwist’ di “a night with the freak”; entrambi brani specialissimi proprio in quanto formano un raro ‘unico’ con le situazioni visive accompagnate, anzi consustanziate). A dimostrare quanto i giudizi della critica possano differire dall’entusiast/encomiast/ico giudizio di alcuni spettatori : nominati non premiati furono ai ‘davidonatelli’ il supremo Rizzo, Bigazzi per la fotografia, Teardo per le musiche (tt davvero bravo, anche visto al palladium di garbatella a sfondo di germano che recita celine). A fronte della messe mietuta da Le conseguenze in italia e fuori (con pieno merito, chiaro sia).
This Must Be The Place non brilla invece per nitore e coerenza espositiva e attoriale, a beneficio di una certa quale scintillante superficialità che si compiace delle notevoli riprese in esterni, di un valente sean penn, della colonna sonora come sempre significativa. La canzone ‘eponima’ tribùta a Dave Byrne, profeta dello straniamento -qui anche attore- il giusto omaggio; a lui e al mitico ‘doppio’ Sand In The Vaseline dei rivoluzionari Talking Heads.
Il divo si sostanzia invece ancora di elementi grotteschi applicati al reale noto-arcinoto, sottolineati dai movimenti di macchina e di scorrimento che arrivano al ralenti, delizioso malizioso insistito alla presentazione della ‘losca squadra’ di comando.
Nessun piano sequenza magistralmente impiegato per l’avvicinamento di titta ai mafiosi – nessuna contreplongee nessun virtuosismo potrebbe d’altra parte sostituire o potenziare la delirante tirata del pluriministro e presdelcons sui temi bene-male-ragiondstato da essi autonoma. Solo gianmaria volontè nell’inarrivabile Indagine di petri ha saputo fare di meglio (ovvero di peggio).
La Grande Bellezza.Surrealpretenzioso dicono.Vero. Barocchista e grottesco.Surrealità è forse l’unica realtà vera che ci sta intorno, a danno di tutto il resto. Si pensi allo scenario politico, che il regista tiene volutamente fuori – ma alimenta la festa di compleanno iniziale, quasi a un Bat-livello, come a dir : “basta già questo che vedete, causa-effetto insieme del quadro culturalsociale che (basso)impera”. Surreale e pretenzioso, sì, il vero pregio del film, con altri molti che ci fanno assaporare la visione senza badare a dimensioni di schermo e circo-stanze, sempre emozionante perturbante, qui o lì. Non è Fellini, non è La dolce vita, né Roma. Ma meglio de La terrazza di scola, asservito un poco a macchiettistici rimandi politico-sociali. Consueto levigato splendente impasto visuale, con sapiente miscela di immagini, colori, volti, parole, paus&musica. I personaggi sono tutti – alcuni anche assistiti da una lucida ironia – soli disperati e si agitano in un luccicante nulla di che. La scena prologo-apertura alla festa ‘65ma’ vale il prezzo di (più di) un biglietto, pur se non all’altezza della brevissima de L’amico di famiglia, ove geremia guarda dal basso lei ballare accanto alla vetrata, frastornato e scosso dal sentire, dall’udire, dal vedere la musica e la donna che non capisce né mai capirà. Secondo i concetti espressi dal regista durante un incontro interdisciplinare tenutosi a palazzo barberini sui concetti di bellezza filosofica pittorica urbanistica (di roma, in particolare, ma dei nostri tempi in generale), per vivere senza lacerazioni qui e ora bisogna sviluppare un senso del bello esteso anche al brutto; o meglio, al grottesco e fuori misura di decenza, quale ormai circonda e pervade la società iperconsumista avanzata, cosiddetta evoluta ‘occidentale’. Una menzione per i molteplici coristi del continuato danzato dialogato affresco che circonda il sempre ineccepibile servillo (ormai però ostaggio della stirata fissità dei lineamenti e delle espressioni, che svariano da vertici di annoiato interessamento verso abissi di vuota fissità), praticamente senza eccezione. Verdone misurato e sofferente, molto deluso persino dalla città tra quelle al mondo più ricche di suggestioni. Ferilli che non accetta il degrado imposto dal tempo, dato che la malattia la priva della decadenza organica progressiva tradizionale. Ferrari quasi tollerabile persino al di là della fisicità e del ruolo antipatizzante. Ranzi dalla prosa prestata (e causticamente caratterizzata quale ‘fallita altolocata’ e snobista organica a sinistra). Villoresi (indimenticabile protagonista con manfredi dell’oscuro ll giocattolo di montaldo) una notevole ‘fallita altonomata’; il di lei figlio, di ottime letture e dalla morte ossessionato, impersonato da un marinelli intensamente stordito, abbonato sembrerebbe ai personaggi in ‘burn out’ (con la felice eccezione di Tutti i santi giorni, in La solitudine dei numeri primi accompagnava la radiosa alba anoressica, attrice forse troppo ‘seria’ e profonda per essere in chiave grottesca qui scritturata; e altrettanto dicasi al maschile per filippo timi). Lillo gallerista demenzialcocainomane, in un ruolo che avrebbe fatto la gioia del compianto rob freakantoni. Vignola-dadina direttrice comprensiva e lucidamente aspra, quasi materna al dismagato jep. Buccirosso macchietta irritante dirompente (per un vertice di tale bruciante impatto sul breve tratto, si veda il suo questore a prologo di Song’e Napule dei manetti bros; o il frenetico danzante cirino-pomicino che ci mostra Il divo). Popolizio monarca severo gongolante del sottocutaneo. Pasotti claudicante malinconico fiduciario claveario. Herlitzka cardinale frivolo scetticissimo esorcista-gastronomo (!?!). Graziosi tratteggiato disarmante nobile ‘a noleggio’ (le movenze, più stordite certo, ci ricordano il decaduto Raffaele Pisu delle Conseguenze). Anna Della rosa, la non-fiancè di Verdone; notata quale stranìta declamatrice nel programma rai-notturno surrealsatirico di Gene Gnocchi anni fa, convincente a teatro (nel vania di cechov con Haber), tanto strana da parere bella .. anche se non quanto Greta Scacchi, fulgida triste maria delle tre sorelle-Paura e amore della Von Trotta, girato a pavia nei giorni in cui vi passeggiavo studente.. e lo mobile incantamento ebbi di vedere.
TUTTI i caratteristi della ‘festa di jep’ che apre le ‘danze urlacchiate filmiche’, incluso il losco giovin produttore che empatizzando a fini di seduzione elèva proust ad autore preferito …”anche ammanniti, però..”.
Youth.Tra le peggiori delusioni degli ultimi anni, con dialoghi imbarazzanti e infarciti di vuote formulette, serie di cartoline di alto bordo montano bidimensionali come neanche alla lanterna magica, che almeno le ombre a silhouette creava. Grave tonfo di un regista che ho creduto non solo tecnicamente bravo al limite della maestria, ma lodevole creatore di immagini e di emozioni.
Stereotipati e raggela(n)ti i personaggi, credibili e vivi come le figurine dei calciatori(cicciomaradona in testa),a dispetto degli sforzi – peraltro non improbi – degli attori, nessuno escluso.Intreccio inesistente e nemmeno riscattato da un Evento finale al cospetto della morte, che rispetto dovrebbe ispirare (come la malattia, qui ridotta a maschera fissa e grottesca). Supremo sberleffo a questo spettatore, che – anche prima della mazzata finale della direzione d’orchestra fronte britannici – se ne voleva scappare prima dei titoli di coda : la profanazione della colonna sonora, con apice di scopiazzo a ricalco del coro moderno madrigale da La granbellezza. Al limite del tollerabile : il videoclip onirico digitalizzato di paloma, che voleva essere cosa..ironico, postmoderno, stomachevole soltanto?La precitata scena finale per violino, soprano e orchestra.La sconcertante banalità della ineffabile “canzone loffia n.3”.Da salvare pochi minuti in tutto : la sequenza iniziale rotante a piano primo su fondo sfumato della leggera cantante una gradevole canzone leggera.Asciugamani a cigno ripiegati. La prostituta bruttina molto, ammiccante principiante, con madre al seguito pietrificata.
Cosa ci dicono i protagonisti, cosa i comprimari, maschere piatte di alto ceto, afasici e inespressivi anche se non necessariamente muti? Che la saggezza e la vecchiezza coincidono con l’accettazione di sé, con la ricerca di un compromesso con sé stessi, con l’autoindulgenza per ciò che si è fatto nel mondo, quasi sempre nei limiti delle schiaccianti convenzioni? Che anche chi eccelle in campo artistico può trascinarsi apatico oppure sproloquiante come un arricchito qualsiasi? Che il regista si è svenduto, fino a produrre un simile pasticciaccio?Ai posteri, ma non a me, non ancora saggio abbastanza.Il principio di realtà, che il Nostro rifugge di norma con la patinatezza di suoni e immagini, qui occhieggia soltanto, svilito oltre la misura da letture (an)estetizzanti, a simulare per ogni età della vita gli aspetti pensosi, se non ironici ,se non sensuali ,se non intellettualmente stimolanti.Per avere una rappresentazione non troppo artificiosa delle situazioni umane non possiamo, e si sapeva, cercare in paolo.. e nemmeno in nanni, pur volenteroso. Soccorrerà Matteo G,che da film fortemente marcati dal verismo dialettale passa agevolmente alla favolistica mitologizzazione della bellezza vuota o ingannevole o traditrice? Direi che per i gradi intermedi di lars – che dirige prima di matteo la giovane stacy ninfomaniaca poi reginella di botto rigiovane – e del mathieu di un indimenticabile La haine, solo ken loach è giunto a riprodurre,ogni volta diverso e uguale,un registro realistico e non caricaturale : con lui nessuna enfasi o caratterizzazione spinta dello uomodonna ‘comune’, del genitore come del prete, del ceto medio impoverito, della borghesia benestante, del capitale come del lavoratore dipendente dal dio mercato.
Chaplin vi si è provato, a unire la presenza scenica e il dialogo brillanti alla raffigurazione di esseri umani (anche politici) anche troppo reali. Senza scalfire la regola delle regole, poeticamente affine a quella leopardiana del gradevole indistinto, che Sorrentino personalizza nel fascino del ‘ricordo lucido estatico’, che però alla ricerca della giovinezza interiore in Youth si sfuma e si perde : se si è belli (o provvisti di talento), non si può essere del tutto veri (o giusti, o buoni); né si può allontanare da sé la sofferenza e la morte. Almeno fuori dal mondo delle idee. Almeno sullo schermo.Al cinema.
“..Proust.. ma dai ..è il mio autore preferito! Anche Ammanniti, però..”
“E’ meglio essere belli che buoni. Ma è meglio essere buoni che brutti” (Oscar Wilde)
e questo pone fine ad un residuo di dubbio che avevo se andarlo a vedere
bella e efficace recensione