“Campanellino, perchè non riesco a volare”?”
“Peter Pan per volare hai bisogno di ritrovare i tuoi pensieri felici”
(J.M. Barrie, Peter Pan)
Il sorriso di un padre. È questa l’immagine più forte e deliberatamente emozionante con cui si chiude il sipario sulle note dolci e amare di “Vecchio Frack”, nello spettacolo Penso che un sogno così che Beppe Fiorello sta riportando in scena al Teatro Ambra Jovinelli di Roma in questi giorni, dal 13 al 24 maggio, con una vitalità, un entusiasmo e un candido stupore davanti all storia, anzi, alle storie che racconta, canta e balla con tutto il corpo, per cui sembra di assistere in continuazione ad un debutto e non alla duecentesima replica.
L’ispirazione autobiografica viene dalla vita dello stesso Beppe Fiorello che, quelli della mia generazione, cresciuti con il sottofondo narcotizzante e scacciapensieri della patina televisiva degli anni novanta, hanno conosciuto prima menestrello in scala minore del più celebre e iconizzato fratello maggiore Rosario, e in seguito attore apparentemente plausibile e riconoscibile per una fisicità comunque già in grado di imporsi come presenza scenica, per arrivare a una nuova e più matura fase di interprete capace di ribaltare segni e significati di quella presenza in personaggi complessi e contraddittori , sfidando le convenzioni di un immaginario tv che dopo il periodo dell’intrattenimento compulsivo voleva imbrigliarlo nella gabbia dorata dell’eroe di fiction.
La volontà di essere altro, Beppe Fiorello ha avuto la possibilità di esprimerla recitando in film che del Sud da cui lui proviene , per di più un Sud non continentale come la Sicilia, hanno dato un’immagine aspra, livida e sanguigna in “Galantuomini” di Edoardo Winspeare, dove fa un tenebroso spacciatore affiliato alla Sacra Corona Unita, oppure trasfigurata,visionaria, simbolica come in “Terraferma” di Emanuele Crialese, dove interpreta un isolano disilluso e ambizioso, che abbandona la poco remunerativa e assai dura condizione di pescatore da cui proviene, per dedicarsi al profitto facile del consumismo turistico.E la sua ultima, potente apparizione cinematografica, anche se in un film non di ambientazione sudista, è proprio in “Se chiudo gli occhi non sono più qui” di quel Vittorio Moroni, che di “Terraferma” era stato co-sceneggiatore, e che qui permette a Fiorello di arricchire la galleria dei personaggi antitetici , con il padre acquisito di Kiko, l’introverso, sognatore adolescente italo-filippino protagonista del film: un uomo violento, materiale, accecato dall’orgoglio e dalla fame della “roba” per un senso di carenza quasi antropologico e culturale, che certo non è in grado di attraversare il silenzio siderale del figliastro per stabilire un contatto.
Non stupisce, dunque, di trovare come co-autore di questo spettacolo proprio Moroni, sicuramente fondamentale nel percorso di maturazione, ricerca e introspezione del nostro Beppe e, di conseguenza,questo spettacolo non può essere che il racconto di un processo.
Penso che un sogno così è l’incipit di una delle più famose canzoni pop della storia della musica,Nel blu dipinto di blu, scritta, con Franco Migliacci, interpretata anzi di più, vissuta dal nostro più acclamato e popolare cantautore, Domenico Modugno, quello che ha rivoluzionato per sempre il modo di comporre e cantare le “canzonette” direttamente sul palcoscenico del loro più fossilizzato e obsoleto tempio, il festival di Sanremo; quello che è stato il primo e, se non sbagliamo, anche l’unico a portare una canzone italiana al numero uno dell’impenetrabile classifica americana di Billboard; che ha spaziato da suggestive ballate in dialetto(“(“U pisci spada”) a raffinate melodie nazional-popolari(“La lontananza”) da meravigliosi,strazianti versi di alta poesia(“Che cosa sono le nuvole”) al grande teatro di ricerca(Mackie Messer in L’opera da tre soldi di Brecht, diretto da Giorgio Strehler).
Ma il sogno così non è solo quello epico e leggendario di Mimmo Modugno, ma anche quello di un picciriddu silenzioso e timido a cui Fiorello si rivolge da subito come se stesse parlando ad una presenza invisibile emersa dall’immaginario di una personale e condivisa memoria, l’altra grande categoria della psiche e del cuore con cui siamo chiamati ad ascoltare e a guardare il protagonista di questa racconto , che ben presto passa dalla dimensione del ricordo all’azione ,il passato evocato in manifestazione pulsante e vibrante del flusso della vita,qui ed ora.Fiorello è contemporaneamente il Beppe bambino, la cui infanzia silenziosa e introversa da subito incrocia il destino della sua “voce”, che poi è la voce di Domenico Modugno, grazie a un 45 giri regalo inaspettato e spiazzante di un lupinaro, uomo che di notte si trasformava in licantropo secondo la diceria popolare siciliana; e la trasformazione sembra essere la cifra della sua performance visto che lo vediamo calarsi anche nelle sembianze, nella voce, nelle movenze di suo padre, del quale offre un’incarnazione così piena di amore, compassione, tenerezza e grazia da far venire la voglio ad ogni spettatore di riappacificarsi con la propria figura paterna, magari quella interiorizzata con cui continuiamo ad essere in conflitto. Ed è questo amatissimo padre, che attraverso il calore, l’affetto, la generosità di un modus vivendi , ha alimentato nel figlio più piccolo il culto del mito di Modugno,portatore nell’assolutezza dell’arte di quegli stessi valori calati nella quotidianità della relazione di un padre con il suo picciriddu.Questo informale passaggio di consegne porta alla terza, grande trasformazione che Fiorello non solo racconta, ma compie davanti ai nostri occhi, la più ambiziosa, il sogno più grande, che tiene insieme lo spettacolo in un mirabile equilibrio tra il ricordo intimista e la memoria collettiva di un paese che si riconosceva e continua a riconoscersi nel coro di “Meraviglioso” o di “Resta cu me”: L’impresa di essere Modugno, come già per una fiction targata rai nella quale si raccontava la genesi ed il trionfo di “Volare”, arriva come una vampata che avvolge e coinvolge il pubblico proprio perché ogni canzone del repertorio interpretata ,oltretutto con una eccellente qualità mimetica sia vocale che gestuale,è intrecciata senza soluzione di continuità con i fili rossi delle emozioni e dei ricordi di un uomo che mette in scena l’eterna ciclicità di un trinità laica: il padre, il figlio e l’artista.
Forse Pasolini avrebbe visto in Fiorello e nel suo papà la stessa innocenza del Ricetto de“La sequenza del fiore di carta”, cosi come aveva affidato a Modugno quell’irraggiungibile momento di poesia cinematografia e musicale che è il finale di “Che cosa sono le nuvole?.
Chiudendo il cerchio, e tornando a Vittorio Moroni, il referente cinematografico di questa storia, è bello ritrovare similitudini e riflessi tra Se chiudo gli occhi non sono più e Penso che un sogno così, che tra l’altro sono due moti complementari e speculari: in quel toccante inizio in cui il padre biologico spiega ad un piccolissimo Kiko il significato e il mistero dell’universo c’è la stessa vibrazione tenera, lo stesso imprinting vitale che il piccolo Beppe ha ricevuto dal padre; e nel fuoco della passione per la cultura e per il pensiero che trasmette Ettore al Kiko adolescente, c’è la stessa possibilità di trovare la propria voce e il proprio destino che Fiorello cerca nell’amore per Modugno e nella celebrazione della sua arte.Qui però siamo alle prese con un sogno, e non con il dover chiudere gli occhi: non ci sono patrigni da tragedia shakespeariana, non c’è il tempo delle disillusioni e dei colpi al cuore.
Qui c’è un padre che ride.
Perché non si può volare senza ritrovare i propri pensieri felici.
Abbasso le passioni tristi e spazio ai pensieri felici! E ridere in faccia a chi ci deruba