In un immaginario tracciato del percorso recente del melodramma cinematografico si può forse tracciare una linea (retta?) che da Fassbinder, passando attraverso Almodovar e Ozon, conduce all’ultimo dei suoi epigoni, Xavier Dolan. Ultimo in senso cronologico e forse il più vicino a RWF per la sua precocità, il suo furore creativo su molteplici livelli (sceneggiatura, regia, interpretazione, montaggio, costumi) e la sua sfacciataggine nel mettere in scena se stesso e la sua omosessualità. All’età di 20 anni deflagra sulla scena cinematografica con J’ai tué ma mère (2009), un film che sin dal titolo appare come una provocatoria dichiarazione di intenti ma che proprio nello spudorato utilizzo della propria bellezza di angelo caduto per rappresentare una vittima di se stesso e del Sistema (ma quale?), mescolata a pulsioni matricide/incestuose e ingabbiata negli spazi chiusi di case, scuole, riformatori dimostra di saper padroneggiare perfettamente le tecniche del melodramma d’autore più intellettuale, quello appunto fassbinderiano. E come tale si rivela, malgrado i suoi vezzi formali o forse proprio grazie all’esasperazione insistita di quei vezzi formali, fortemente autentico e dolente.
Meno riuscito appare invece il suo secondo film, Les amours imaginaires: sarà lo scoglio del secondo film (il più difficile in assoluto), sarà l’età (ben 21 anni, ormai!), Dolan riesce tuttavia a superare anche Rainer Werner F. e pur realizzando un’opera di transizione (una specie di Sogni d’oro, se vogliamo, con tutti i problemi del caso) quantomeno batte il record mondiale di manierismo, riuscendo a 21 anni a citarsi addosso (per dirla con Woody Allen), riprendendo senza il minimo disagio gli stessi vezzi stilistici (monologhi con sguardo in macchina, ralenti esasperato, canzonette pop anni 60, meglio se in italiano) e gli stessi attori del film precedente, per proseguire la sua discesa agli inferi del melò. È qui però che il film inizia a vacillare, perché alla puntuale riproposizione degli stilemi formali di genere non corrisponde un eguale intensità narrativa. E non bastano i primi piani, gli interni, la macchina da presa che gioca con i corpi solarizzati nelle scene di sesso.
Fiducioso nelle sue capacità, Dolan affronta il tema del triangolo amoroso, che anche nella sua versione gay (lui gay, lei etero, grandi amici, si innamorano entrambi di un bellissimo ragazzo che flirta con tutti e due e non si capisce da che parte sta) gode comunque di una vasta letteratura cinematografica: così a memoria vengono subito in mente Sotto il cielo di Parigi di Michel Béna o Cabaret di Bob Fosse (quest ultimo vede anche la felice consumazione di tutti con tutti, ma va detto che si tratta di un episodio secondario all’interno della vicenda). Oltre che sul suo talento, Dolan fa un po’ troppo affidamento sulla bellezza scarmigliata di Niels Schneider, che avrebbe necessitato come contraltare un certo approfondimento psicologico dei suoi due innamorati, interpretati dallo stesso Dolan e dall’attrice Monia Chokri. Tre personaggi sono troppo pochi per giocare esclusivamente su ruoli e meccanismi, non bastano a fare La ronde o La regola del gioco, il film è un susseguirsi di situazioni narrate in monologhi (interviste a ragazzi e ragazze) o dialoghi (i due amici insieme, i due a letto con i loro amanti) in cui ci si racconta la propria solitudine e infelicità e idealizzazione dell’altro e ossessione amorosa. Lo stesso Nicolas (N. Schneider), pur definito dai suoi due innamorati colto, intelligente e sensibile, per loro in fondo non è altro che un feticcio, un’opera d’arte (il David di Michelangelo, cui somiglia incredibilmente, peraltro), in bilico tra Narciso e il Tadzio de “La morte a Venezia” , prigioniero della propria indicibile bellezza, e chi sia in realtà non interessa poi veramente nessuno.
Il melò di Dolan è dunque privo di degenerazioni postmoderne à la Almodovar, perché gli elementi di farsa e commedia che lo caratterizzano non sono presenti se non in lievissimi sprazzi quasi subliminali, come la pioggia di marshmellows sul primo piano di Nicolas. Elementi almodovariani sono solo superficiali ed estetici, come le scenografie, gli oggetti e gli abiti che costruiscono il personaggio di Marie, coloratissimi, artificiosi e vintage ( senza contare l’inquadratura della testa “mozzata” di Marie di profilo identica a quella di Julieta Serrano in Donne sull’orlo di una crisi di nervi).
Si può ben costruire un melodramma su un amore che è solo immaginario, lo sfasamento tra realtà e immaginazione nell’ossessione amorosa carica ulteriormente l’elemento imprescindibile del genere, ovvero la violenza, che sia verbale, suggerita, psicologica o produca schizzi di sangue. Quella violenza che, con modalità diametralmente opposta ovvero implosa ed esplosa, costituisce il nucleo intenso e fondante di Tom à la ferme e Mommy.