La musica finisce se nella vita di un essere umano qualcosa si spezza. Succede a Sergio, personaggio del film di animazione  “L’arte della Felicità”, piccolo capolavoro, presentato al festival di Venezia, generato dalla sinergia di giovani artisti napoletani. Il titolo della pellicola richiama apertamente l’opera del Dalai Lama, ma del buddismo il film ci parla in maniera marginale. O forse lo fa quando, dentro  la realtà quotidiana di  una Napoli ciclicamente sporca, disordinata e piovosa, il tassista Sergio Cometa – il nome velatamente richiama il produttore Luciano Stella – conduce  la propria vettura senza mai scendere, perduto alla ricerca di se stesso dopo l’improvvisa partenza dell’amato fratello Alfredo, divenuto monaco buddista. La notizia della sopraggiunta morte di Alfredo, getta Sergio nello sconforto più totale al punto da indurlo a consumare la sua vita tra i ricordi  -molti i flashback intervallati anche dai pensieri e ricordi dei vari clienti del taxi – chiuso nell’auto-guscio necessaria alla protezione e sopravvivenza dell’uomo.

Sergio è stato un valido musicista, in simbiosi con Alfredo nelle esecuzioni, e del distacco del compagno e fratello non sa darsi una spiegazione. Sergio si lascia vivere nella frustrazione di un lavoro che non ama e che lo svilisce ogni giorno di più. La ragione della partenza di Alfredo resterà oscura per molto tempo, almeno fin quando una lettera, oltre alla notizia della morte, non ne svelerà la malattia. Ed è proprio la malattia ad aver spinto Alfredo, come ultima soluzione, a vivere gli ultimi tempi  alla ricerca della felicità interiore.

Il contesto è Napoli nella sua completa decadenza, dove il Vesuvio sembra minacciare di “detonare” da un momento all’altro così come, interiormente, Sergio è sul punto di esplodere. Il tassista, nella sua rassegnazione, sembra somigliare un po’ ad ognuno di noi: nelle  frustrazioni, nei limiti che ci bloccano, nelle paure che subentrano, negli affetti che non riusciamo a dimostrare e ad avere, dove alcuni ricordi restano gli unici attimi di felicità o  serenità,  gli unici movimenti che riescono ancora a dare un senso al presente, rimanendo impressi in noi nell’attesa di poter avere ancora altra vita.  I clienti che si susseguono all’interno dell’auto rievocano, ognuno, un particolare che riporta Sergio ad Alfredo: dalla cantante pop allo speaker radiofonico, dai racconti del vecchio zio al “riciclatore” di gente fallita. Anche per questo motivo, per non rompere, cioè, la continuità di questo flusso ipnotico e amniotico, il tassista non vuole fermarsi mai. L’ultima  lettera di Alfredo, dimenticata sul cruscotto, svelerà la fuga e scioglierà, in gran parte, l’abulia di Sergio.

Ma la musica dovrà riprendere a costruire armonie e a improvvisare incognite da interpretare, affinché l’uomo possa davvero rinascere e agire nell’interrotto fluire della vita. La speranza del film è riposta in Sergio così come, in una visione più generale, è riposta nella città – Napoli è con tutta evidenza nel cuore dei creatori del film, i quali con enorme passione realizzano i disegni ed una tecnica animata davvero straordinaria ed attenta ai particolari–  con l’auspicio che il degrado e, appunto, l’abulia verranno spazzati via dalla volontà e dalla bellezza.

L’intervallo che interrompe la musica nella vita di Sergio non sarà altro che un breve ma epifanico attimo dell’esistenza, dal quale Sergio uscirà dolorante ma anche rafforzato da un rinnovato ottimismo, o almeno da una speranza della volontà.

Nonostante i molti elogi da parte di valide testate giornalistiche, il film non ha avuto molto riscontro di pubblico; e anche poche, a dire la verità, sono state le sale che lo messo in programma. Dovremmo forse smettere di ritenere i film d’animazione inferiori agli altri. A maggior ragione se consideriamo come il proliferare delle immagini e dei formati, tipico dei nostri tempi, abbia di fatto annullato qualunque giudizio aprioristico teso a incasellare (e controllare) un film.

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