di Annalisa Picardi
Nel Vangelo di Matteo è scritto: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Il maestro Olmi mette in scena uno dei film più delicati di questi nostri tempi. Un film che interroga ognuno di noi e le nostre coscienze sul nostro non agire.
“Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?” Nietzsche, 1882.
Il villaggio di cartone sembra nascere come capitolo successivo al famoso aforisma 125 del filosofo tedesco.
Olmi è partito da quest’affermazione e l’ha ampliamente ribaltata per tutta la durata del suo racconto.
“Devo tenere tutto in mente, tutto, come in questo istante…mio Dio…” Un anziano prete prega in una chiesa spoglia e polverosa che sta per essere svuotata. Il suo sguardo “è triste fino alla morte” mentre tutto intorno rumori angoscianti annunciano ciò che avverrà: le ruspe porteranno via ogni cosa e gli elicotteri porteranno verso la morte gli uomini dalla pelle scura, appestati dalla loro povertà.
Prima di tutto questo, però, l’anziano sacerdote incontra e vede il Dio che sta pregando, incarnato in un bambino piccolo e dalla pelle scura che, affacciandosi sulla porta della chiesa, da’ un’ultima occhiata prima di andare via.
Per poi tornare però.
Tolte le immagini di Dio, Dio arriva per davvero.
La chiesa vuota diventa il villaggio di cartone, parabola della Chiesa di Cristo “che accoglie e non conosce altra legge che quella di Dio”, come farà notare il vecchio prete Michael Lonsdale al miliziano delle ronde interpretato da Alessandro Haber.
Ma cerchiamo di decomprimere il senso di queste affermazioni. Quando Nietzsche ha parlato del nostro, per lui futuro, secolo ha come profetizzato sull’uomo che avrebbe affrontato il nuovo millennio. Un uomo perso nel vuoto della sua esistenza priva di valori.
In un certo senso l’uomo razionalista che veniva dall’800 aveva prodotto le ideologie che avrebbero portato alle dittature, ai lager e ai gulag del ‘900, all’atomica, allo sterminio di massa. Il primo sterminio che si operava però era quello dei sentimenti e dell’umano sentire. Cominciava a formarsi la prima parte del “vuoto post moderno”, vuoto interiore.
Poi è arrivato il dopoguerra, il ‘68 e il benessere economico occidentale. Allora si è deciso di mettere da parte la ragione e di riprendersi la parte sentimentale ed emotiva. L’immaginazione al potere che subentra alla razionalità. Mi si perdoni la semplificazione, ma questa era una premessa essenziale per arrivare ai nostri giorni.
Questi giorni che non hanno capacità di elaborare e metabolizzare un concetto, un valore, qualcosa che non passi con la fugacità di un’idea, di un lampo, una moda radical chic, che sia espressione del dio soggettivo e individualista del “mi va o non mi va”.
Questo film sembra cristallizzarsi su questo tempo di passaggio, su dei tempi nuovi che stiamo per intraprendere.
La Chiesa di cui parla Olmi, e in cui ambienta praticamente tutto il film, è un tempio vuoto. E’ vuota e diventa paradigma dello svuotamento che abbaimo prodotto nella nostra storia, nelle nostre radici, nella nostra cultura.
Secoli di storia bruciati nella tragedia del ‘900, davanti al cancello con la scritta “arbeic macht frei” che rappresenta da solo la sconfitta del pensiero umano.
Perché uccidere i propri valori significa uccidere la propria cultura. Il valore dell’uomo che lo distingue dagli animali, che pure hanno sentimenti, è proprio il produrre cultura. A partire dal desiderio di ragionare, non di cedere all’indifferenza.
E questo compito, questo richiamo al produrre senso e cultura, Olmi ancora una volta ce lo propone con la semplicità. Un vagito di un bambino risveglia le nostre coscienze, anche quella di un prete. Modello di una chiesa “nuova” che riparte dalla natività, dal canto dell’adorazione a un bambino. Una chiesa che ha già abbastanza cultura e storia per conoscere l’inizio di questo film: Dio che s’incarna in ogni uomo.
E poi ci siamo noi, che non siamo più capaci di inginocchiarci, davanti all’uomo in croce, di noi che non l’adoriamo e non contempliamo più la croce, siamo capaci di molte parole, di guerre, tra armi, politica e parole, appunto. Eppure incapaci di inginocchiarci e semplicemente tacere. Tacere. Tacere. Tacere.
In croce, l’uomo, che ha molti nomi, molte forme, che giace a pochi metri da noi e di cui ignoriamo l’esistenza. Come per gli ebrei e per i lager.
Quali forze militari vogliamo che sorgano in difesa dei deboli?
A liberarli dalla condanna che arriva dallo stesso nome con cui li definiamo: “clandestini”. Dov’è la dignità nel definire un uomo clandestino? Rispetto a cosa poi? Al diritto di esistere forse?
E chi cavolo siamo noi per affermare la supremazia di una razza rispetto ad un’altra?
Togliamo loro il diritto alla vita perché c’è di mezzo una storia diversa dalla nostra? Dalle nostre comodità intellettuali, religiose e politiche.
Dicevamo dell’inginocchiarci. Sì miei cari, inginocchiarci, ai piedi di chi è povero, nudo, senza una casa, abbandonato da tutti, senza diritti, invisibile, anzi peggio, da cui la nostra vista si distoglie. Malconcio, a dir poco. Massacrato da ferite mortali, dall’indifferenza, dall’alcol, dalla droga, dall’indigenza, dall’umiliazione quotidiana, dal freddo, dal caldo senza riparo, dalla disoccupazione, dalla malattia.
Retorica? Basta guardarsi intorno per capire che è ciò che non agiamo ogni giorno.
Per comprendere che la realtà già ci porge in un bel film la possibilità di leggere noi stessi in un “clandestino” da accogliere.
Olmi tutto questo lo porge alla nostra vista con delicatezza e profondità. Con la forza di cui la sua poetica è capace.
E’ un film, questo, di cui si sentiva la necessità e l’urgenza. Che impone una riflessione dicevamo, all’interno della politica, della chiesa, di noi stessi.
I tempi sono maturi per giungere a una piena consapevolezza di noi stessi e del ruolo determinante che rivestiamo su questo mondo. Ognuno con la sua parte, ognuno con la sua croce, che deve adorare se vuole sapere da che parte stare per rimanere insieme agli altri, per difendere e difendersi, tra i più deboli. Da questa parte del mondo.
Elies Wiesel, premio Nobel, ha consegnato alla storia una verità, che dice pressappoco così: ”Chi non ha memoria è già un assassino” E’ inciso sulla pietra, all’ingresso del museo della Shoah a Gerusalemme.
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di Marino Galdiero
Al contrario di quanto Annalisa Picardi ha già scritto su questa rivista, a me l’ultimo film di Olmi ha deluso, con fatica sono riuscito a seguirlo sino in fondo. Le ragioni che hanno suscitato un vivace dibattito sui quotidiani per Il villaggio di cartone mi sembrano più di natura ideologica-politica che di carattere estetico: da una parte critici e opinionisti più sensibili alle ragioni dei migranti (centrosinistra), dall’altra coloro vedono nel flusso di persone provenienti da altri paesi un pericolo (centrodestra). Altre questioni discusse, anche in questo caso ripartite all’incirca sui due fronti politici, sono relative alla concezione di chiesa espressa del regista – praticamente una sua dissoluzione – e al suo concetto di carità cristiana. Per quanto mi riguarda l’ultima opera, in ordine di tempo, pienamente riuscita, l’ultimo capolavoro di Ermanno Olmi è Il mestiere delle armi, opera in cui sviluppa al meglio la sua poetica e dove la forma e il contenuto trovano il giusto equilibrio.La mia delusione nasce da una grande attesa, quella che si riserva a quegli autori che raccontano qualcosa che ci ri-guarda. Invece l’insoddisfazione estetica non è il prodotto di una sorta di snobismo ma dalla convinzione che Il villaggio di cartone metta troppa carne al fuoco, con un linguaggio che cerca la via del simbolico e finisce per essere spesso piattamente didascalico. Chissà che poi in fondo l’intenzione di Olmi, raggiunti oramai gli ottant’anni, non voglia essere proprio quella di insegnare, di voler lasciare un messaggio, che non prema in lui l’urgenza del profeta.
Può anche darsi, tuttavia la persuasione – pur nello stile lineare e semplice dell’autore – non agisce come dovrebbe, l’apologo-racconto non convince. L’ambizione è culturalmente alta, perché si vuole mettere in scena la crisi del mondo occidentale – attraverso un luogo simbolico (il villaggio-chiesa), oramai privato della sua funzione originaria, per cui una perdita di identità che per Olmi si trasforma in un’opportunità – incapace di dare risposte a donne e uomini che partono da terre lontane, con tante speranze che finiscono per essere frustrate. Un edificio religioso sconsacrato – molto suggestive le immagini all’inizio del film quando la chiesa viene spogliata del suo arredo, con le vertiginose inquadrature del crocifisso – che diviene un villaggio con le semplici costruzioni di cartone dei migranti clandestini. Con questi rimane il vecchio parroco che si rifiuta di lasciare la chiesa, un uomo che vive una crisi spirituale (interpretato da Michael Lonsdale che pare essere l’alterego dello stesso regista), che a un certo punto dice: “Per fare il bene non occorre la fede”, frase che ha suscitato in alcuni ambienti cattolici polemiche.
Dunque se le tematiche erano forti – il dubbioso percorso religioso del prete, il dramma dell’immigrazione, lo sfondo di una società intollerante e nichilista (negatrice dell’umano) – l’ambientazione, i personaggi, e lo stesso racconto sono deboli, in ottantasette minuti di proiezioni non accade un granché, anche se la sceneggiatura riesce ad aggiungere una suggestione terroristica che non trova sviluppo, resta sospesa, un’allusione alla possibilità che gli immigrati portino con loro la violenza cieca? Che visto come sono trattati potrebbero compiere degli atti terroristici? Che tra di loro si nascondano dei terroristi? La scena è rimasta per me un mistero. Il concentrare la messa in scena in un unico luogo poteva essere l’occasione di una concentrazione sulle vicende, sui drammi esistenziali che coinvolgono i migranti o in ogni caso di teatralizzare le storie, tutto ciò non avviene. Ogni cosa che appare soffre dell’esser detta più che rappresentata. |
concordo con l’impressione di aver visto un film didascalico e visivamente piatto più che austero