Un nuovo lavoro di Werner Herzog è sempre fonte di grandi aspettative, almeno per buona parte della nostra redazione, che raramente si rivelano riposte in modo frettoloso o spavaldo. E ciò vale, in special modo, quando si ha a che fare con il suo prolifico lavoro di documentarista (anche se questa definizione restringe troppo il campo d'indagine).
Probabilmente, a voler riassumere lo stimolo che spinge a far esperienza dei suoi lavori, si può suggerire che il suo cinema è un posto in cui andare quando si vuol cercare qualcosa. Un qualcosa che sembra situarsi nello spazio teso che l'ignoto e l'indeterminato scavano dentro la determinatezza delle cose, dell'esperienza, rendendo visibile nei suoi limiti ciò che all'apparenza non si vede. Questo svelamento dell'ignoto, tuttavia, scorre parallelo al processo di comprensione razionale della realtà indagata. La messa in scena dei diversi punti di vista corrispondenti alle numerose interviste dei soggetti coinvolti in un triplice omicidio, è infatti il punto di partenza di Into the Abyss.
La testimonianza dei fatti, in questa prospettiva, la vediamo discendere lentamente dentro un ambito più grande che la comprende: l'abisso del dolore umano (inflitto o subito in una causalità non sempre comodamente individuabile). Una specie di processo di scarnificazione con il quale superare il dato storico e simbolico di quello che i protagonsiti rappresentano (dato comunque necessario alla comprensione, sembra giustamente dirci Herzog) per arrivare all'essenza dell'umano (o della sua negazione), al dolore che inabissa lo spazio vitale degli uomini e che rende inutile lo scorrere progressivo del tempo. Sia esso il tempo sospeso della concentrazione del carcere o quello rimosso della perdita violenta di una persona cara. Parallelamente, Herzog ci mostra anche la conquista del tempo consapevole, quello, cioè, perduto e poi ritrovato per mezzo della scelta che accetta di dare una possibilità alla vita umana non rimuovendone le fragilità (ne sono un esempio le dimissioni che il "boia" rassegna dopo aver salvato un piccolo animale che gli intralciava il suo caddy per il Golf). Le interviste agli amici dei carnefici e delle vittime, allargandosi a raccontare la loro quotidianità fatta di noia e ordinaria devianza, disegnano un affresco del Texas di gelida intensità. Privi di risorse culturali (e spesso anche economiche) per decifrare la realtà e investiti dalla disillusione e dalla rabbia che segue il fallimento del modello made in Usa, gli intervistati, fidandosi di Herzog che agisce in prima persona la mdp, lasciano trapelare il vuoto e la disperazione che sfocano le loro vite.
Herzog è evidentemente contro la pena di morte ("ma la pena di morte serve? non è una cosa da antico testamento?", si chiede), tuttavia lascia parlare i familiari delle vittime anche quando questi confessano che solo la morte del colpevole potrà liberarli. Scavando nelle coscienze degli intervistati (e un po', quindi, anche nelle nostre), Herzog riesce a smuovere il torpore intellettivo ed emozionale che sembra paralizzarli anche fisicamente (sono tutti passivamente rigidi o al limite, pensiamo all'omicida Perry, mobilmente nevrotici), riportandone a galla l'umanità ferita. A proposito del suo metodo di lavoro e dei suoi obiettivi, Herzog ha più volte detto di non sentirsi un contabile della storia, ma di cercare piuttosto una verità estetica, prendendo spunto da fatti realmente accaduti ma poi per il resto drammatizzandoli. Le domande poste agli intervistati collaterali, a quelli, cioè, non protagonisti dell'omicidio, l'apertura sulle loro vite "normalmente drammatiche" e i tempi morti, perduti, filmati sui loro volti, possono ritenersi parte di questo doppio movimento. Il documentario "a tesi", in cui far sfilare interviste con "esperti" e immagini precostituite con cui scioccare o rassicurare, è lontano mille miglia dal lavoro d'autore portato avanti da Herzog.