“L’uomo non è un impero in un impero della natura”: è attraverso questa chiave di lettura spinoziana che provo a leggere il piccolo gioiello cinematografico di Bennet Miller e Dan Futterman. Ispirandosi alla biografia di Gerald Clarke, il film Capote racconta la genesi del libro A sangue freddo che negli Stati Uniti diede vita al genere romanzo-documento.
Nel 1959, nel Kansas, un’intera famiglia di coltivatori viene sterminata da due assassini e l’idea di Truman Capote è quella di indagare nella natura umana partendo dal punto di vista degli assassini, per raccontare la loro storia, le loro motivazioni. Ed è attraverso il legame che stabilisce con Perry Smith, uno dei due omicidi, che emerge con forza un mondo dominato da un ferreo determinismo. Capote è un artista e in nome dell’arte tutto passa in secondo piano, tutto le è funzionale. La realtà, le persone, le storie vengono sacrificate alla scrittura per essere nobilitate e riscattate. Perry è il prodotto di una vita infelice, figlio di un’indiana Cherokee alcolizzata, con due fratelli suicidi e una sorella dimenticata. Un uomo così non può non seguire la necessità del suo destino come Capote, in quanto artista, non può non nutrirsene vampirescamente per trasformare questo sordido fatto di cronaca in un’opera d’arte. “E’ come se io e Perry fossimo cresciuti nella stessa casa. E un giorno lui è uscito dalla porta sul retro e io da quella davanti”, così si esprime Capote ad un certo punto del film, perché è così che accade in un mondo dove non c’è scelta e ognuno deve seguire un destino in cui la sola libertà data è dettata dalla consapevolezza che non c’è alcuna libertà. Perry poteva evitare di uccidere quelle persone, ma quando il capofamiglia lo guarda riconoscendolo come assassino, lui lo diventa e così compie il suo destino. Truman, volendo, può impedire che i due disgraziati vengano giustiziati dalla legge, ma non lo fa. Perché la sua storia ha bisogno di un finale che deve essere quello e non un altro, quello della morte violenta che ristabilisca un equilibrio nell’ordine turbato e che riempia di lirismo tragico la conclusione del romanzo.
E tuttavia nel finale un’ombra scende sull’opprimente mondo necessario, la deriva a cui si consegna Capote affidata alla raffinata interpretazione di Philip Seymour Hoffman, che con una profondità impercettibile mostra l’abisso tra la realtà e la sua rappresentazione.