Wenders, come autore e come teorico del cinema, nelle sue numerose riflessioni e pubblicazioni, si è sempre posto su quel fronte che alla domanda “che cos’è il cinema?” ha risposto a favore delle caratteristiche analogiche della pellicola, a favore delle capacità della pellicola di cogliere le qualità atmosferiche, a favore dei valori dell’inquadratura, ovviamente bidimensionale, della durata, e a favore di un linguaggio sviluppato a partire dall’ontologia del mezzo. Un lungo percorso che stride con la recente adozione del 3D per il cortometraggio Il volo (2009) e per il film dedicato a Pina Bausch (2011). In Pina, come in tutti i film in 3D, le parti collocate più in basso nella tradizionale inquadratura bidimensionale sembrano uscire dallo schermo e materializzarsi nella sala cinematografica, sottotitoli e titoli compresi… Un’emozione, questa, ancora puramente legata al versante del trucco, dell’effetto. Il 3D, anche nell’opera di un grande autore, non mostra ancora nessuno spunto di linguaggio. L’emozione si lega invece al significato quando Wenders usa il vecchio linguaggio del campo e controcampo o il campo lungo. Wenders però dichiara il contrario, e sembra usare la danza come “cavallo di Troia” per far entrare il 3D nei territori dell’ espressione. Racconta che voleva da molto tempo fare un film su Pina – dall’umanità delle cui opere teatrali era stato profondamente toccato –, ma che non riusciva a trovare la chiave giusta. E di averla trovata quando si è imbattuto nel 3D, perché questa tecnologia gli offriva la possibilità di immergersi nello spazio insieme ai danzatori, di sentirsi parte della loro danza. Ma a ben vedere, se la danza fonde e mescola corpi, spazio, emozione, il 3D separa i corpi dallo spazio, trasformandoli in “figure”. Se il 3D è generalmente considerato, infatti, parte di quegli upgrade orientati a favore di una risposta sinestetica dello spettatore (dal muto al sonoro; dal bianco e nero al colore), in realtà la sua spettacolarità risiede nel suo anti-realismo. Le tecniche digitali oggi più diffuse (Real D e Dolby 3D) truccano lo spazio per reinterpretarlo come una serie di piani distinti e l’effetto volumetrico è dato da una “discretizzazione” della profondità di campo (cfr. Paolo Marocco, La visione in 3D: dalle origini a Wenders, in Spazio Wenders, LibrAre, 2009).
Wenders ha sempre mostrato attrazione per le sperimentazioni tecniche, come quella per l’uso dell’immagine elettronica, a fine anni ’70 (Nick’s Movie), e quella per l’immagine elaborata al computer, a inizio anni ’90 (Until the End of the World), ma non si può oggi non sospettare una lusinga dell’effetto pubblicitario legato al tecnologico. Ci sono interessi che stanno usando il 3D come “cavallo di Troia” attraverso cui far penetrare i sistemi digitali nelle tradizionali cabine di proiezione. Le major americane, dalla fine del 2013, smetteranno di produrre pellicola. Un’altra grande attrazione wendersiana, a volte interecciata a quella per la sperimentazione linguistica, come nel ricordato Nick’s Movie, si trova nel tema della morte, della perdita. E in questo aspetto Pina trova il suo interesse e la sua vera profondità. Nato come progetto quando Pina Bausch era viva e partecipe, il film si è rimodulato ed ha ascoltato la preghiera dei danzatori di “non lasciarli soli” dopo la morte improvvisa e inaspettata della coreografa. Più che un’opera su Pina, il film diventa un’opera sull’assenza di Pina e sul vuoto incolmabile che la sua morte lascia nei suoi danzatori, persone che hanno abbandonato i loro paesi e le loro vite alla ricerca di un qualcosa che hanno trovato grazie a Pina Bausch. La ricostruzione di quattro spettacoli – Café Müller, The Rite of Spring, Kontakthof e Vollmond – si mescola a interviste e testimonianze di questi danzatori.
Estratto dal mio articolo per “Arte e critica” (ringrazio Enzo Cillo, Fabrizio Crisafulli e Massimo Bombelli per lo scambio di opinioni).