Atmosfere mystery, sistemi percettivi al femminile, ossessione del controllo, statuto ambiguo della visione.
Al festival di Roma 2011, due opere geograficamente e stilisticamente agli antipodi, Baby Call, thriller psicologico del norvegese Pål Sletaune in concorso nella sezione ufficiale, e Ostende, opera prima dell’argentina Laura Citarella, nella sezione Extra-Fuori Concorso, condividono l’interesse a sondare i limiti dell’osservazione (e quindi del cinema) nella capacità di congetturare sulla verità.
In Baby Call, Anna (Noomi Rapace, premiata, a ragione, come migliore interprete a Roma 2011) appena separata da un marito violento, abita con il figlio Anders, in un immenso condominio anonimo della periferia di Oslo, affidata alla protezione dei servizi sociali.
La giovane donna che, complici la solitudine e l’isolamento, soffre di uno scollamento dalla realtà che le procura allucinazioni, non si sente sufficientemente al sicuro e vive nell’ossessione che il marito possa ritrovarli e fare del male ad Anders. Perciò controlla compulsivamente il chiavistello all’ingresso, oscura le finestre, pretende che il bambino la segua ovunque. Quando gli assistenti sociali, per riabituarlo a una vita normale, stabiliscono che il figlio dovrà dormire da solo, Anna si procura un babycall, un ricevitore sonoro a distanza per poterlo sorvegliare nel sonno. Una notte l’apparecchio capta le urla terrorizzate di un bambino. Non è Anders, che riposa tranquillamente nella sua cameretta. Il ricevitore, evidentemente, sta intercettando il segnale trasmesso da qualche altra parte nel palazzo. E’ un punto di non ritorno, sia per l’equilibrio psichico della protagonista, che per la tenuta narrativa del film.
Il giorno successivo Anders tornerà da scuola con un nuovo compagno, un bambino taciturno che sembra nascondere un terribile segreto.
Il regista Pål Sletaune, già autore di Naboer, insolito thriller in cui la minaccia dalla “porta a fianco” assumeva la forma di un feroce gioco psico-erotico, dimostra di conoscere bene i ferri del mestiere. Sotto la radiazione opalescente del cielo scandinavo, individua il set perfetto in un casermone grigio di periferia, di quelli che non ti aspetteresti nel paese della (fu) felicità socialdemocratica. Diversamente dai bronx nostrani, tuttavia, qui siamo a due passi da un bosco di conifere e, come Anna promette ad Anders, quando sarà stagione madre e figlio lo attraverseranno per raggiungere il laghetto. Punto di partenza e di arrivo, ottima metafora dello stato disciolto della coscienza della protagonista, sulle rive del lago s’intersecheranno i diversi piani percettivi della realtà, nelle sue acque si discioglierà sangue innocente e ci si immergerà in un ultimo disperato tentativo di (auto)salvataggio.
Se la messa in scena, asciutta e disadorna, intensificata dal bagliore impietoso della luce, dà credito a un’interpretazione obiettiva dei fatti, lo stato psicologico della protagonista e il progressivo disvelarsi di dettagli inquietanti, insinuano dubbi sull’attendibilità della visione, sui confini tra realtà e immaginazione. Il risultato è la consapevolezza che niente è come appare. Anna vede cose che non esistono e ne è cosciente. Talora la sua facoltà allucinatoria pare in grado di scrutare recessi di verità ben oltre la dimensione del sensibile. Ma le conseguenze di questa visione perspicua non la mettono in salvo, non assicurano vie di fuga al suo dramma psichico, e non le sono d’aiuto per porre in atto il suo minimo, ostinato progetto esistenziale: proteggere l’incolumità del figlio a ogni costo. Anche quando, immaginando un altro bambino in pericolo, la donna sembra scrollarsi dall’inazione catatonica e assumere un ruolo attivo tentando di far luce sul mistero, non si libererà mai veramente dalla membrana di terrore paranoico in cui l’istinto di protezione materna l’avvolge. L’abbozzo d’indagine che sembra trasformare Anna in una detective-medium è solo un'altra falsa pista.
Baby Call ci conduce passo passo attraverso quelle zone d’ombra che sono riserva di caccia per i nostri mostri dell’inconscio. La follia autodistruttiva della protagonista sembra derivare dalla confluenza di due forze: il timore di perdere l’estremo oggetto d’amore e il desiderio ossessivo di conservare un controllo assoluto su una realtà inafferrabile, quest’ultima, una ricorrenza tematica del cinema norvegese (si pensi al bellissimo e strano horror metafisico Den brysomme mannen). Un’ossessione per il controllo che qualifica una società della sorveglianza e diviene pratica sociale nel programma di protezione che si vorrebbe imporre alle vittime della violenza. Gli assistenti sociali, che non sembrano nutrire alcuna indulgenza per le apprensioni di Anna, predispongono la vita quotidiana di madre e bambino in modo coercitivo, quasi dispotico. Così Helge, il commesso del negozio dove Anna acquista il babycall e suo unico amico, sarà invitato dai medici a prendere una decisione sulla morte assistita della madre malata. L’illusione del controllo sul termine della vita.
Il regista Sletaune gira con scioltezza e sobrietà di mezzi, isola i personaggi e li rivela nella loro nudità esistenziale; lavora per sottrazione costruendo la tensione a partire da pochi elementi narrativi: le grida distorte di un bambino da un apparecchio radio; un movimento di dolly che, ripetuto in due diversi momenti del film, svela lo sbriciolarsi della pretesa obiettività dell’immagine, sbaragliando le certezze sull’interpretazione della verità, e spalancando la porta su ipotesi oscure.
E’ proprio da questo momento in poi, tuttavia, che il regista sciupa la riserva di segreta fascinazione connaturata all’ambivalenza delle immagini, introducendo elementi estranei all’habitat filmico e all’economia narrativa. Arrampicandosi su un crinale metafisico sempre più scivoloso, Baby Call risolve ogni residuo alone d’indeterminatezza nell’adesione alla natura spiritica delle visioni. Non che non ne abbia diritto. Ma contrariamente a illustri precedenti come The Sixth Sense o The Others, in cui la verità rivelata si abbatte totalmente inaspettata, stimolando il gioco di una rilettura retroattiva della vicenda, Sletaune non riesce a farci cadere nell’ultima trappola. Mentre lo spettatore avveduto già a metà film ha fiutato la verità diegetica sotto il magma di false piste e pseudo-indizi, quello inesperto è irritato dall’inganno perpetrato. Entrambi incapaci di partecipare emotivamente a un finale studiato a tavolino (ancora una volta l’ossessione del controllo, questa volta a livello extradiegetico) si ritrovano, dopo i titoli di coda nel foyer, storditi dalle troppe risposte facili con cui Baby Call sembra avere fretta di chiudere la porta all’enigma della percezione di una realtà inafferrabile.
Anche Ostende ripropone, a partire da un esile impianto narrativo, il tema dei limiti dell&rs
quo;osservazione in senso dichiaratamente meta-filmico. Sotto esame qui, il dispositivo mediatore dello sguardo, la sua capacità di sondare verità nascoste, mettere in relazione elementi minimi di realtà – creare nessi attraverso il montaggio – suggerendo interpretazioni sulla natura stessa dell’esperienza visiva.
La giovane protagonista vince un soggiorno fuori stagione in un albergo di una località rivierasca. Nell’attesa dell’arrivo del fidanzato per il weekend, la ragazza occupa il suo tempo osservando i pochi altri ospiti dalla finestra della sua camera. In particolare nota un uomo anziano e due giovani donne dall’atteggiamento ambiguo e si incuriosisce della reale natura dei loro rapporti. Convinta che nascondano un mistero, inizia a pedinarli a distanza, congetturando sui possibili scenari che le loro condotte sembrano suggerire.
Come in Baby Call, anche in questo caso la condizione temporanea di solitudine e d’isolamento in cui si trova la protagonista, gioca una parte decisiva nell’amplificazione della percezione soggettiva. Uno stato di alterazione della coscienza di segno ben diverso da quello di Anna, in cui non è tanto la paranoia a impregnare lo sguardo e determinare le reazioni, quanto una noia malinconica, la monotonia indolente alla quale la ragazza sembra abbandonarsi, affine in questo alle protagoniste della Coppola.
La dialettica tra obiettività dello sguardo e soggettività della visione, ricorrente nelle riflessioni degli autori di cinema, rimanda naturalmente a una riflessione sullo statuto stesso del mezzo di ripresa e sulla sua adeguatezza a interpretare il mondo sensibile.
Laura Citarella, fresca di diploma all’università di cinema di Buenos Aires, omaggia apertamente Hitchcock e Antonioni, declinando al femminile i taciturni testimoni protagonisti di Rear Window e Blow Up. A tratti il suo godimento cinefilo arriva al De Palma calligrafico di Body Double e Blow Out, in un gioco di specchi di citazioni incrociate.
Il risultato è un’opera prima pretenziosa e saccente, in cui si respira un accademismo soffocante che inibisce la costruzione della suspense – l’atmosfera di sospensione e di mistero sotto scacco di un formalismo affettato, in cui ogni soluzione di regia (si veda l’impiego incessante della profondità di campo con i cambi di messa a fuoco) diventa cliché o fiacco auto-compiacimento citazionista.