FLAG DAY di Sean Penn
UNA CRONICA SMISURATA
Flag Day di Sean Penn, cronaca di un tormentato rapporto fra una ragazza e suo padre, è un affare di famiglia.Sean Penn, nel ruolo del protagonista John Vogel, un anti-eroe americano per eccellenza nato, come il titolo indica, il giorno della festa della bandiera, ha voluto a suo lato nel ruolo di Jennifer Vogel sua figlia, Dylan Penn. Hopper Jack Penn, impersona il fratello minore di Jennifer. Adattato per il cinema da Jez et John-Henry Butterworth, il film s’ispira dall’autobiografia della giornalista Jennifer Vogel che racconta venti anni di una relazione ad intermittenza con un padre affascinante e manipolatore, truffatore e falsario di genio, morto sotto il fuoco della polizia al termine di un inseguimento mostrato in diretta dalla televisione. Dramma sentimentale, Flag Day traccia, con mano spesso incerta, un lungo percorso che va dalla primissima infanzia di Jennifer all’età adulta, facendosi strada attraverso le varie tappe della sua movimentata vita di famiglia.Il film inizia dalla fine della vicenda: convocata dalla polizia la ragazza apprende il crimine di cui e incolpato il padre: stampa e circolazione di biglietti falsi, un reato per il quale potrebbe venire condannato a ben 75 anni di reclusione. Nel porgere alla ragazza un biglietto contraffatto dal padre, l’ufficiale donna che è incaricata dell’affare, la consola dicendole che anche suo padre era un poco di buono, ma questo non ha impedito né lei, né la protagonista di diventare delle persone per bene. Rassicurati sulla sorte di Jennifer, possiamo fare un balzo di una ventina d’anni a ritroso- il film è punteggiato di capitoli ordinati cronologicamente- e riprendere la storia dall’inizio. Confrontato ad una massa enorme di materiale narrativo e ad un periodo di tempo assai ampio da coprine nel giro di due ore, Sean Penn ha optato per trattamento ibrido, mischiando metodi e strumenti espressivi di vario genere.Facendo eco al personaggio del padre, un uomo estroso, debordante di energia, affascinante ma assolutamente incapace di vivere una vita normale, lo stile del film adotta l’iperbole. La prima parte della storia è raccontata dalla voce in off della ragazza che si ricorda a sprazzi della sua infanzia. Mentre sulla banda sonora sentiamo i suoi commenti pieni di saggezza sul senso della vita e varie frasi presumibilmente poetiche, sullo schermo defilano in controluce le immagini gioiose di una giovane famiglia nel mezzo di un campo dominato dal cartellone pubblicitario di un cowboy che il padre, naturalmente portato per il disegno, schizza con estro su un pezzo di carta per poi regalarlo alla figlioletta. Une lunga serie di sequenze si snoda su questa stessa modalità mentre la voce in off della ragazza viene spesso sostituta da lunghi inserti di musica pop dell’epoca- siamo alla fine degli anni settanta. Oltre che disegnare, il padre si diletta a filmare i suoi figli con una piccola cinepresa. Anche questi materiali, una sorta di falso found footage, confluiscono nel tessuto visuale del film. Purtroppo tutti questi elementi visuali disparati che sulla carta suonano convincenti, nel film non si armonizzano in maniera convincente. L’estenuante preludio in voce-off, cede ad un certo punto il posto alla recita: i personaggi ritrovano la propria voce e la vicenda può riprendere il suo corso in tempo reale. A tamburo battente seguiamo le orme del protagonista che, dietro la sua facciata gioviale, nasconde molte zone d’ombra. Estroverso, pieno d’estro e di originalità- ama Chopin e fa ascoltare sempre ai figlioletti le sue sonate- John Fogel, vive costantemente al di sopra dei propri mezzi. Inquieto e labile, lascia spesso la famiglia e scompare per lunghi periodi di tempo. Un giorno decide di fare la propria strada e si separa dalla giovane moglie. Raccontato dalla prospettiva della ragazza, il film ci parla di un’infanzia difficile con una madre fragile che non riesce a badare neanche a sé stessa. Nel corso di un’estate indimenticabile – queste sono le sequenze più belle e riuscite del film- Jennifer e il fratellino scappando da casa troveranno rifugio dal padre che ha affittato una villa sul bordo di un lago, vive con una nuova compagna, organizzando giri in barca e feste memorabili. Ma l’estate e la spensieratezza finiscono bruscamente quando, un giorno, l’uomo viene brutalmente picchiato da un gruppo di individui ai quali doveva dei soldi. I bimbi devono ritornare dalla madre. Qui inizia un lungo calvario per la protagonista. Un’ellisse ce la mostra ormai adolescente e punk; con la velocità sommaria che caratterizza questo film la vediamo tentare di dare fuoco alla scuola e fumare degli spinelli, in casa poi assistiamo ad un tentativo di stupro da parte del compagno di sua madre. Ancora una volta Jennifer vede nel padre la sua unica ancora di salvezza e pur sapendo ormai di avere a che fare che un uomo abituato a mentire, decide di andare a vivere con lui. La convivenza che sembra in un primo tempo portare della stabilità nella vita di entrambi finisce tragicamente il giorno in cui il padre decide, su un colpo di testa, di fare un hold up e finisce in carcere. L’immagine del padre, l’eroe indiscusso della sua infanzia, si sgretola irrimediabilmente per Jennifer: l’uomo allegro e pieno di risorse, il suo grande idolo, non è di fatto altro che un manipolatore e un delinquente. La giovane protagonista in crisi parte allo sbaraglio in un lungo viaggio attraverso gli Stati Uniti nel corso del quale tocca più volte il fondo. Anche questo frammento di vita ci viene proposto sotto forma di immagini a raffica coadiuvate da una musica di fondo. Considerando la densità degli eventi, Il numero di piani girati dal regista deve essere stato ingente ma questa smania di volere mostrare tutto si risolve spesso in un’estetica da cartolina postale, sommaria e superficiale. Il film che si vuole affresco di un’epoca, cade più di una volta involontariamente nel kitsch; i personaggi che invecchiano o che devono ringiovanire di una ventina d’anni– è il caso di Penn stesso- vengono bardati con delle parrucche talmente inverosimili da sfiorare il ridicolo. S’intuisce il desiderio di mostrare tutta l’intensità di un rapporto padre-figlia cosi drammatico e controverso ma l’accumulazione di immagini, fatti e dettagli finisce per soffocare proprio quell’emozione che avrebbe dovuto essere al cuore del film. Certo le interpretazioni di Sean e di Dylan Penn sono intense e a tratti realmente commoventi ma, immerse nella cacofonia formale del film, finiscono per perdere la loro forza.