Non capita spesso, a chi da anni frequenta festival cinematografici, di farsi sorprendere da un film. Viene il dubbio che, come un tossico che deve aumentare sempre la dose, il critico (chiamiamolo così) sia sconvolto dalla quantità più che dalla qualità, che nel marasma di un festival e del ricordo di quelli passati, ci voglia proprio un piccolo choc per attirare la sua attenzione. Il fenomeno è diffuso, quindi, in attesa dei tempi in cui nei concorsi internazionali saranno ammessi anche gli snuff movies, non è impossibile che Lucifer colpisca proprio perché diverso, volutamente e provocatoriamente diverso dalla maggior parte dei film in circolazione.
Prima di tutto, il formato: via 4/3 o 16/9 o altri schermi ormai già visti. L’immagine è contenuta in un cerchio all’interno dello schermo nero, come un movimento a “iris” che invece di chiudersi rimane aperto. E si apre su un’immagine che potrebbe anche essere un test di Rohrschac e che gradatamente diviene un cielo pieno di nuvole. In mezzo all’iris, un punto nero che pian piano aumenta di dimensioni, ma non si avvicina mai, sembrerebbe qualcosa (o qualcuno?) che cade dall’alto verso di noi, e forse è proprio così perché poco dopo una voce metallica di altoparlante annuncia ad un sonnolento paesino messicano che una scala misteriosa scende dal cielo, che un angelo sta arrivando a salvare il mondo, e che per guardare Dio con più eleganza si vendono scontati degli splendidi occhiali da sole.
L’iris sarà forse l’occhio di Dio? Più probabilmente l’occhio del diavolo, bergmanianamente: Lucifero giunge nel paesino per sconvolgere l’esistenza degli abitanti, ma pur non trovando la resistenza della fanciulla alle grazie di Don Giovanni (come nella versione di Ingmar), anzi trovando la strada spianata alle sue seduzioni erotiche e non, la sorpresa è che non cambia nulla. Lucifero, per nulla affascinante o maledetto anzi con l’aria un po’ depressa dei contadini locali, seduce una vergine e la mette incinta, fa perdere la fede ad una vecchia caritatevole e smaschera il di lei fratello che da anni si finge malato per farsi accudire e di nascosto beve e gioca d’azzardo.
Fingendosi guaritore, rimette in piedi il vecchio e delizioso Emanuel che risponde con allegre flatulenze all’annuncio dell’arrivo dell’angelo e che costretto ad essere sano, quantomeno se la spassa ballando tutta la notte fino alla chiamata di Dio, un Dio indulgente, invisibile ma dalla voce sorridente, che non considera peccato il bere o il mentire (a meno che non si menta a Dio, cosa che Emanuel non ha mai fatto) e lo accoglie in paradiso, dopo avergli fatto lasciare il machete (“ma è caro”, si lamenta Emanuel a malincuore).
“Solo guardandola in faccia, io capisco quello di cui ha bisogno la gente e la curo” dice Lucifero alla vecchia Lupita. Capisce che la giovane Maria ha bisogno d’amore, che la gente del villaggio ha bisogno di un miracolo, più atteso che reale, ma deve scontrarsi con il fatto che in un posto abbandonato da Dio, anche per il diavolo c’è poco da fare. Dopo la sua scomparsa niente cambia, le persone continuano ad essere maldicenti ma solidali, il governo chiede soldi ai poveri ma ce ne sono per costruire una chiesa dal campanile altissimo con la scritta al neon “siamo qui”, con tanto di freccia, così il Signore o chi per lui, la prossima volta non potrà sbagliarsi. Maria sembra aver trovato una nuova famiglia lontana dal paese ma Lupita è condannata, con i pazzi e i criminali, a prendere parte ad una processione intorno al vulcano, scandita da una musica ossessiva sotto lo sguardo neutro dei compaesani, che dura fino a quando qualcuno non muore davvero.
Interpretato da attori non protagonisti all’insegna di un allucinato antirealismo ipnotico tra “Cuore di vetro” e i film di Straub-Huillet, Lucifer non ha nulla, ad esempio, della furbizia di Miguel Gomes, il cui oscuro e sopravvalutatissimo Tabu lasciava una ben precisa sensazione di essere stati presi in giro. Il film di Van Der Berghe (giovane autore che evidentemente conosce Buñel e Julio Bressane), pur con tutti i virtuosismi provocatori del caso, è prima di tutto una parabola sul Bene e il Male nell’animo dell’uomo, una rappresentazione infantile (quindi come tale divertita e crudele allo stesso tempo) dei comportamenti umani davanti all’infelicità e alla solitudine, senza moralismi né indulgenza e quindi terribilmente efficace.
emanuel ricorda tanto il suonatore jones della spoon river secondo de andrè… speriamo prima o poi di riuscire a vederlo (cineclub?)