“La notte è venuta per prenderci giovani…” è il verso finale di Throu the eyes of a  ruby (attraverso gli occhi di un rubino), una canzone degli Smashing Pumpkins, gloriosa e deflagrante band nata dai moti del movimento grunge all’inizio degli anni Novanta, una struggente ballad di toccanti note intimistiche e brusche, rabbiose accelerazioni, contenuta in Mellon Collie and the infinite sadness, il loro album di maggior impatto sull’immaginario delle giovani generazioni di giovani, sperduti, arrabbiati, confusi adolescenti post ideologici di quel periodo storico, indefinito sospeso tra la finta e roboante gloria degli anni Ottanta e ricco di aspettative e promesse per l’arrivo degli anni Duemila, che invece produrranno un ulteriore periodo di confusione  nelle generazioni successive, senza neanche più la forza catartica di una musica come quella. In questi giorni quell’album e i versi di quella canzone in particolare mi sono rivenuti in mente, e  non  come nostalgica e consolatoria fuga nel passato, ma  perchè due film molto diversi eppure richiamanti un inconscio collettivo comune, li hanno evocati con una lividezza e una vitalità presente, intensa, travolgente.

Il primo titolo è Se chiudo gli occhi,non sono più qui  che, emancipandosi autonomamente dal suo autore, Vittorio Moroni, ma possedendone lo stesso pacato, segreto carisma, è diventato un compagno di viaggio irrinunciabile nella revisione di una dialettica con la figura del Padre che la generazione degli Smashing Pumpkins non ha potuto uccidere in quanto ci hanno detto che era già stato fatto da qualcun altro, e in un’altra epoca, il 1968, l’anno del mito laico fondante della generazione dei figli.

Kiko, il protagonista di Moroni, mi ha invece imposto con il suo volto dall’espressione tagliente e gli occhi attraversati da lampi di allucinata esaltazione il silenzio siderale tra un pianeta e l’altro, quello che probabilmente è passato tra quella data mitica (1968) e questo presente: la non comunicazione di un evento accaduto, attraversato, pagato con il sangue e con la furia violenta degli anni Settanta, la coercizione e mercificazione del desiderio degli anni Ottanta, lo stordimento e l’esitazione degli anni Novanta, preambolo al vuoto che si è procrastinato fino a spingere chi oggi ha l’età dell’adolescenza a rinchiudersi, nascondersi, a volere sparire (Se chiudo gli occhi, non sono più qui). Il camper in cui si rifugia Kiko, che oltretutto è italo-filippino e dunque  figlio di un processo di contaminazione culturale e sociale tradottosi nell’impreparata Italia in frammentarietà e conflitto, non è solo un luogo di memoria e riflessione contro l’aggressività feroce e viscerale, fuori dal tempo del logos e immerso in quello del patos, con  cui Ennio, il patrigno, vorrebbe possederlo e dominarlo.

Si tratta anche e soprattutto un non-luogo evocativo, che appare come creato dal pianeta pensante del Solaris di Tarkovski (non a caso l’immagine finale di quel film è l’abbraccio tra un padre e un figlio) dove si compie la ritualità del culto di un “buon” padre, la cui morte agli occhi di Kiko resta un mistero inspiegabile e inaccettabile, da rimuovere e sublimare, visto che nessuno ha insegnato a lui come, a ritroso, alle generazioni precedenti arrivando a quelle di  Throu the eyes of a ruby, ad elaborare fuori dalle menzogne e dalle manipolazioni. Il terzo “padre” di questa storia, Ettore, sembra la figura risolutoria, l’anello di congiunzione tra quel ’68 che aveva creato nuovi eredi di Socrate e Platone e i loro futuri allievi,  anche se quelli affamati di conoscenza come Kiko sono diventati sempre più rari.

“La tua inoccenza è un tesoro, la tua innocenza è la morte, la tua innocenza è tutto ciò che ho..” dice un’altra strofa della canzone degli Smashing e sono parole che potremmo mettere in bocca ad Ettore nel definire la sua relazione salvifica (per se stesso) e trasformativa (per Kiko) ma è rapporto sembra chiudersi con la frase  con cui si è aperta questa riflessione, “La notte è venuta per prenderci giovani…” , strappando a Kiko quell’ultimo slancio adolescenziale: lo vediamo ora non riuscire più a passare attraverso le sbarre del cancello che segnavano l’ingresso nella fase matura della vita del giovane protagonista di Mignon è partita dell’Archibugi, in quel caso in concomitanza con la prima delusione sentimentale.

In fondo anche Ettore è una delusione sentimentale, perché si è portato dietro la colpa di figli diventati adulti che sono riusciti (apparentemente) ad uccidere il padre ma non hanno costruito e tramandato un modello di società alternativa, dove anche il desiderio sessuale può essere vissuto e condiviso senza la demonizzazione punitiva o la burocratizzazione normativa.

Il secondo titolo che ha suscitato un confronto profondo problematico e intimo con il senso di essere padri e figli, non è stato tanto un compagno, quanto un serpente che si è attorcigliato nel cuore e nella mente: Anime nere di Francesco Munzi. Nel suo cinema la notte era già arrivata ai tempi di Saimir, ritratto cupo e vitale  di un giovane immigrato clandestino, senza neanche il complesso retroterra culturale del Kiko di Moroni, la cui esistenza si identifica con una lotta disperata contro il padrepadrone per passare dallo stato di sopravvivenza a quello di vita nella sua pienezza e intensità (anche qui c’è un innocente sentimento amoroso e il suo disinganno). E dalla disperazione di quell’opera prima, Munzi passa alla tragedia calata, parlando di miti fondanti e di arcaiche società patriarcali, nel suo ambiente naturale e privilegiato, il profondo Sud, l’Aspromonte, la parte più interna, ostica, “aspra” fin dal nome che la identifica, di una regione fittissima, respingente, contraddittoria come la Calabria.

Qui si consuma la faida interna di una famiglia legata del vincolo indistruttibile come una predestinazione, un sentimento, un’atmosfera di morte e di violenza più forte di quello interno alla “famiglia” allargata della ‘Ndrangheta, in cui militano due dei tre fratelli al centro della storia. Il terzo, il più grande, che ha rinnegato quel passato in una chiave passiva e conservatrice -fa il pastore di pecore- e non trasformativa e alternativa, è il padre di Leo, che sta attraversando lo stesso periodo esistenziale di Kiko, la ricerca di un’identità, il desiderio di evadere da quelle che lo stesso Munzi chiama gabbie sociali e che, traducendo nel linguaggio del Mito, potremmo definire fato o destino. Ma Leo compie un movimento opposto a quello di Kiko che viene spinto fuori dal tempo del Mito (il campersantuario verrà distrutto) e si confronterà con il dolore mortale della perdita e del rimpianto (Ettore): questa giovane anima nera si sente tradita e abbandonata dal padre biologico che non aiuta ad un processo di rielaborazione o quantomeno di conoscenza del Passato (che, trattandosi di tempo mitico, è anche Presente e Futuro in una circolarità senza via d’uscita).

L’unico senso che Leo pensa di poter dare alla propria esistenza si esprime in una tensione rabbiosa che, come un astio, si attacca alle immagini e trascina la storia quasi per inerzia all’unico finale possibile, spezzando anche la mitizzazione del passato familiare e dei due zii ‘ndranghetisti, con il volto buono e quello cattivo della criminalità, il primo riciclatosi nella finanza e nell’imprenditoria del Nord, il secondo più sfacciatamente brutalmente compromesso con i meccanismi di potere, violenza, vendetta. La notte si prende Leo e sembra non esserci altra possibilità.

Il film è attraversato proprio da questa impotenza e da questa assenza di giudizio, la Giustizia (e con essa si intende il Tempo e la Storia) è tenuta fuori, delimitata dal territorio come quel magnifico particolare dello sputo della madrematriarca quando il poliziotto le chiede se sa qualcosa a proposito della morte di uno dei figli. E la figura, la semplice presenza silente e torva della Madre e della struttura matriarcale rende i figli degli “impotenti”, esseri umani che non hanno saputo immaginarsi altro da sé (l’incapacità di comunicare con il figlio da parte del fratello onesto se non attraverso contenimento fisico e regole che sono altrettanto aberranti e annichilenti rispetto all’ottusa avidità degli altri due).

Più esplicitamente e antropologicamente di Se chiudo glio occhi non sono più qui, Anime nere mostra con lucidità come il sistema patriarcale in cui viviamo si sta distruggendo da solo, per autoconsunzione (la scena del fuoco nel pre-finale con il fratello onesto brucia la foto con l’articolo in cui riporta l’esecuzione del padre, che potremmo considerare l'”atto” fondante del Mito in chiave tragica) e come abbia trasmesso questa impotenza distruttiva alla generazione successive (per altro, colpevolizzandole poi…). In questo aspetto c’è l’incontro con il film di Moroni: un Patriarcato morto, defunto, che ormai continua a vivere solo in foto che hanno la stessa funzione di ex-voto (e quanto il culto nella nostra società sia regolato dal cattolicesimo, la più patriarcale delle confessione cristiane) oppure mostra il suo doppio volto:  brutale e oppressivo (Ennio), seducente e ambiguo (Ettore).

Ora, non resta che trasformare questo lutto subìto più che agito e sicuramente non elaborato in un’occasione per smetterla di cercare di essere figli di qualcuno o padri di qualcun altro, come l’Adele H. di Truffaut, incastrata tra l’essere la figlia di Victor Hugo e l’aspirazione a diventare la moglie del tenente Pinson, passando per il desiderio, l’abiezione, la follia, fino al raggiungimento di un obiettivo comune a tutti, uomini e donne. Siamo esseri umani,  siamo noi stessi, e questo basta.

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