In occasione della proiezione estiva all’Arena di San Pietro in Vincoli (Roma, mercoledì 30 luglio 2015 ore 21.15), ripubblichiamo la recensione scritta da Luca M. Spanu . Anche al di là e meglio del miglior Cronenberg, ‘Under the Skin’ si trova al cine questi giorni, dall’omonimo romanzo di Michel Faber. Un impasto magicosmico di silenzi, aspro scottenglish, paesaggi battuti dal vento dalle onde furiose e dalla pioggia. E dalla solitudo in generale.
Le brughiere scozzesi e le vie che portano al mare, ruggente come (più di) belva delimitano nastri in dirittura di asfalto, ove sfrecciano motociclisti, uno in particolare, caracollante a spalla portare un cadavere, di giovane donna, destinata a uno spazio senza profondità, bianco accecante, ove avviene una metamorfosi di rivestimento esteriore.
Appare in campo bianco una giovane senza nome, la citopigia parvenza della divina Scarlie Jo, il viso inquadrato da un buffo caschettin rigonfiato di capelli, che degli abiti della defunta si veste, calze duramente smagliate comprese, per poi entrare nel (contemporaneo separatista scozzese) mondo, in cerca di maschi desideranti.
Il bianco e il nero assoluti assurgono ben presto a cifra del film; ammalianti, compatti e senza riflesso, vischiosi ma morbidi, avvolgenti scivolanti e solidi come raso eppure liquidi trasparenti-ingannevoli, a fagocitare umani dal pene ritto, binaria lettura in bilico tra la deformità e la levigatezza superumana della Jo, quest’ultima non scalfibile da bacio o da contatto d’uomo, tanto meno da esso penetrabile (in senso psicologico e non) se non con danno irreparabile della pelle e dell’essenza aliena umanoide.
Di pochissime parole, di mimica minima e alla guida di voluminoso furgone, la Jo preterumana si muove sulle strade di Scozia e nei vari ma uniformi sobborghi proto industriali e post depressi dei villaggi scozzesi.
Ella ricerca esseri umani in cerca di spassi o più semplicemente di compagnia dialogante, che lei offre senza alcun trasporto, fino all’ingresso a retropasso ipnotico nel nero nerissimo di anfratti ogni volta diversi e uguali, in cui avanzano i concupiscenti sino a sprofondare passo a passo nel bituminoso abisso, ove i corpi galleggiano ancora intravvedendo Jo-aliena nuda e passeggiante sopra di loro; e tutti i fagocitati prima o dopo si ritrovano a vari stadi sotto l’atra superficie, dall’appena sprofondato irrigidito da un amoroso stupore al di già sprofondato ormai rigonfiato sino a puro involucro di pelle tesa tesissima, che di colpo si svuota sibilando, a lasciare niente più che amorfo straccio.
Jo passa da umano a umano fino a uno schivo ascoso neurofibromatoso, cui lei dedica più di qualche parola e persino una carezza, a scioglierne la timidezza; l’unico che ella risparmia e a cui concede di uscire dal baratro di nera opaca pece, fino a quando l’alieno mototrasportato non lo recupera sopprime e inscatola come ogni aspirante amante di Jo in fondo merita.
La solitudine in balìa degli elementi naturali (o innaturali quanto a Jo, accanto alla quale appare in filigrana una nera bituminosa figura alta e snella, che al finale rivedremo) si manifesta anche accanto ai rapporti sentimentali a mezzo compiuti tra la Jo e i giovani scozzesi: una famiglia viene smembrata dalle onde che rapiscono giovane madre e poi padre, un bimbo di pochi mesi paonazzo piange alle sferzate del vento del nord; l’alieno motociclista tramortisce il soccorritore esperto nuotatore e rimuove di lui ogni traccia abbandonando il piccino alla sua sorte, ormai orfano sulla ghiaia di grana grossa e davanti agli scogli frastornati d’acqua e di tempesta, unici testimoni dell’lncomprensibile (agli umani).
L’amore sembra finalmente sfiorare la grassottella Jo, la quale allo specchio si rimira e poi arriva molto vicina al fatale intimo contatto, da cui solo all’ultimo si ritrae, lasciando alla violenta fiammeggiante scena ultima il disvelamento del perché.
Decisamente degno di nota l’insieme di musiche, volti fissi e straniti dal freddo, movimenti fluidi e sceneggiatura ultraminimale, a far parlare i silenzi, le intemperie e una (impossibile) ricerca di fratellanza intergalattica, tra stolidi umani e femminili involucri di pelle viso occhi vuoti sognanti e stolidi diabolici indifferenti arcangeli motociclisti.
Allo spettatore rimane nelle orecchie l’eco delle sonorità psichedeliche nerobianche e nel naso e sulla pelle la salsedine polverizzata dagli scogli delle acque rivoltose. Rimane negli occhi l’inquietudine e la tristezza dei luoghi che sudano nebbia e delle foreste di conifere cupe quanto fitte. Rimane sulle dita la percezione del fascino un po’ imbolsito della Jo, una meno atletica ma gentile Cybersix sulla terra del nord guidante e non tra i tetti di una similBaires volante. Ci sentiamo respinti e insieme colpiti dalle fattezze e dal candore dell’elephant man’ che più d(egl)i altri intenerisce Jo. Ci sentiamo a un passo dalla consapevolezza del fatto che uomo e donna e natura dialogano soprattutto attraverso (a volte ingannevoli) superfici; e che la profondità dei rapporti, tanto fisici quanto psicologici, si sconta vivendo, anche a prezzo di ferite che l’ottimo clip maker-regista Jon ci suggerisce e visualizza in multiforme sfarzo.
L’ho appena visto e non mi e’ piaciuto per niente. Proprio ho pensato alla diversa pasta, questa sì trasgressiva, dell’altra Jo, quella di von trier. Qui non c’è nemmeno la disperazione dello spettro che ha sostituito le relazioni umane, perché la protagonista si dibatte tra il nulla patinato e la tradizione, con grande compiacimento del regista, maschio come l’autore del libro. Lo sottolineo visto il piglio finto femminista. E a dirla tutta mi sembra che si faccia un gran calderone di tesi post e stereotipi molto pre…