SHAME- Ripercorrendo il film di Steve McQueen, ci sembra significativo osservare come quella narrata sia la storia di una coazione a ripetere, di un’imposizione del corpo su qualsiasi pulsione affettiva e su qualsiasi rappresentazione simbolica -e dunque su qualsiasi ordine del senso. Una coazione psicotica tendente a superare la mancanza e l’impossibilità (dell’Altro) tramite la compulsione (e il possesso) sessuale che fa coincidere il desiderio con la sola pulsione di morte. E l’allegoria con la società dei consumi che divora i suoi figli mediante l’identificazione (che sa di necrosi) di essi con gli oggetti (con il finto pieno che dà il possedere a proprio piacimento gli oggetti), oltre che con il falso concetto di libertà per cui ogni cosa è a nostra disposizione, che è anzitutto inconscio (e psicotico) tentativo di liberarsi dalla perdita e dal dolore della finitezza, si affaccia alla nostra coscienza.
Il protagonista cerca di dominare con un suo metodo, ossia con una ritualizzazione, le proprie giornate prive di direzione e scopo che non siano quelli del gioco sociale ipocrita -alimentato dal segreto escludente e negazionista e dall’uso compulsivo dei social network- rimanendo ben presto intrappolato dalla sua stessa ragnatela ordita per arginare traumi e rimozioni –la vergogna di essere escluso dalla società lo spinge a continuare la sua psicotica relazione con essa e a “non dire”, a non accedere cioè al linguaggio del senso. Perché se la vergogna rispetto alla ossessione sessuale è ciò che viene mostrato, molto più grande, proprio perché assente e segreto allo sguardo dello spettatore, è il rimosso che sembra agitare i due protagonisti, fratello e sorella. Il fantasma dell’incesto è infatti ciò che nutre un amore disperato, impossibile ed escludente. Escludente dalla società, per la quale il tabù dell’incesto è elemento fondativo, motore delle relazioni della comunità e dunque della stessa società; ed escludente dalla relazione con l’Altro, poiché entrambi sono incapaci di amare non avendo mai compiuto il lutto per l’unione narcisistica, dunque assoluta, vissuta nel passato. Ed è qui che il segreto, alimentando l’isolamento a causa del forte vissuto di vergogna, alimenta anche la coazione a ripetere -processo con cui, di più, si pensa di sconfiggere il passare del tempo e dunque la morte- così che rimuovendo il mancato lutto originario della separazione, l’”incestuoso” continua a saldare, proiettare, confondere e sovrapporre senza distinzioni persone, ruoli e tempi, rimanendo del tutto scisso dalla autenticità e dalla verità che possono provenire solamente dalla relazione con l’irriducibile Altro.
L’attenzione del cinema di Steve McQueen è rivolta costantemente al linguaggio del corpo, un corpo-superficie che entrando violentemente nello spazio dell’inquadratura (e nel campo visivo del presente dello spettatore) e deformandone, quindi, la prospettiva, finisce per spiazzare la linearità narrativa e l’equilibrio formale sulle quali lo spettatore è abituato a costruire e decodificare il senso.
E se il senso di Shame è che quando il corpo s’impone su qualsiasi rappresentazione tutto allora diventa buio, il desiderio scompare (e diventa pulsione di morte) e ci si ammala, è anche vero che l’ultima scena del film, quella, cioè, successiva all’altra che vede la rottura della coazione a ripetere del protagonista, il quale sceglie (stando su un piano psicologico) di non seguire l’ennesima donna incontrata sulla metropolitana, l’ultima sequenza, dicevamo, è un vagito su campo nero –che è nascita al mondo così come nudo uragano nell’universo: perché l’incesto non è solo buio ma anche desiderio.
MAPS TO THE STARS – Nell’ultimo, significativo e riuscitissimo (dopo un paio d’opere minori) film di David Cronenberg, l’incesto tra i genitori dei due giovani protagonisti -anche qui fratello e sorella- corre parallelo con quello di Hollywood, attuato tramite la caduta nell’autoreferenzialità, dove entrambi si fanno metafora di un mondo –familiare e sociale- imploso, nei confronti del quale è possibile scatenare solamente una rivolta iconoclasta e omicida contro l’immagine delle false stelle –l’uccisione di Havana, il crollo dell’immagine manipolatoria e vincente del padre.
Nella loro tensione assoluta, il dolore e la morbosità vengono usati dai giovani protagonisti di Cronenberg per riempire il vuoto, per dare corpo al nulla. Mentre l’incessante ripetere i versi di Elouard (“Libertà”) da parte di Agatha –“scriverò il tuo nome su…”- si pone, come in Shame, lungo il piano della perdita dell’ordine del senso, sebbene in Agatha trovi all’opposto una resistenza. Perché se nel vuoto della società contemporanea tutto è destinato, e sempre più, a non entrare nell’ordine del senso, a scivolare nell’impossibile, ovvero in “ciò che non cessa di non scriversi” (J. Lacan), allora il mormorio di Agatha problematizza liricamente la mancanza dell’altro (che è anche mancanza del linguaggio, del significante). Scrivere il nome sugli “oggetti” della realtà è allora un tentativo di ridare un nome alle cose, di riappropriarsi tramite il linguaggio (assoluto) della poesia di quella realtà che si è fatta solo consumo e simulacro (cioè altro da sé).
Dopo essersi scambiati gli anelli che invertono il maschile e il femminile (suggerendo l’assoluto androgino) e dopo aver quindi ripetuto (almeno simbolicamente) l’incesto dei genitori, Agatha e Benje, distesi sopra uno spazio quadrato di mattoni che rimanda a quello arcaico dei riti sacrificali, si daranno il suicidio. La scena è condotta da Cronenberg con un movimento della mdp che partendo dai corpi dei due ragazzi si allontana verso l’alto, verso le stelle del cielo. La dimensione archetipica e rituale dell’atto compiuto dai due ragazzi, dunque, orienta il senso lungo una lettura che vede nella ricerca del sacro e della morte sorgiva, che lavando le colpe dei padri e ripetendo un atto primordiale consente di rigenerare il mondo, la sua catarsi -o la sua exit strategy.
Problematizzando ciò che Cronenberg e anche von Trier ci hanno mostrato nei loro ultimi, pur bellissimi film, viene da pensare che entrambi, registi non più giovani (e maschi), si siano posti davanti alla “crisi” (delle relazioni, dello statuto del reale, del senso in una società dominata dai simulacri del consumo) con un lucido pessimismo che però, allo stesso tempo, finisce per concedere allo spettatore la fuga finale nel tempo mitologico e nell’assoluto. Entrambi i loro film, infatti, terminano con eventi sacrificali ad alto valore simbolico (quantomeno per come vengono da entrambi rappresentati) quali l’omicidio e il suicidio, che ripetendo il caos e il sacrificio originario finiscono per purificare il mondo dall’ipocrisia per infine rigenerarlo. Tutto ciò, ovviamente, in una visione simbolica e metafisica della conoscenza che lascia fuori –per forza di cose- lo spazio (e il primato) trasformativo e processuale delle relazioni e l’incompiutezza della vita che accade al di fuori di schemi e tesi (“per un cinema della relazione” pensiamo, tra gli altri, alle opere di registi come Doillon, il Pialat di Loulou, Assayas, Honorè, Dolan, oltre naturalmente che a quello di Cassavetes).
LE MERAVIGLIE – Regista trentaduenne qui alla sua seconda prova, Alice Rohrwacher davanti all’”incestualità dei tempi” e alla tentazione di fuga nell’assoluto, si pone con altre lenti e motivata da altra energia. L’ambivalenza rispetto a quello che mostra, l’oscillazione tra la critica alla “purezza” e la sua idealizzazione (della marginalità e della piccola comunità autarchica diretta con piglio violento e tenero dal padre), si risolve a tutto favore della prima se solo poniamo la giusta attenzione alla sequenza che vede padre e figlia, arrampicati su un albero, ricondurre le api, milioni di api, dentro le celle costruite dall’uomo. La fascinazione per il nucleo familiare autosufficiente e per il primitivo quale luogo in cui far rifluire il senso di originaria appartenenza a un tutto (fusionale e assoluto), si ferma infatti davanti alla rappresentazione dell’addomesticazione violenta delle api da parte di padre e figlia –ossia le due generazioni e i due sessi ai margini del ciclo vitale- davanti al volerle, cioè, inglobare nel proprio sistema, nel proprio “tutto” –l’opposto della mancanza e dell’alterità. Tanto che dopo averci impigliato nel mondo chiuso e quasi incestuoso della comunità familiare “a margine”, dopo averci mostrato la ripetizione della tradizione e dei rituali ad essa connessi svuotati del sacro e resi, da ciò che la comunità rurale è diventata, “prodotti tipici” –il “tour etrusco”-, la regista fa irrompere nella narrazione il movimento dirompente verso il fuori (qui, e paradossalmente, rappresentato dalla televisione) e verso l’Altro (il ragazzo “straniero”).
Le meraviglie, così, negli ultimi venti minuti diventa grande cinema, addirittura non lontano da quello enorme di Herzog e Haneke. Un cinema che accede alla dimensione astratta, anzi “totale”, dell’arte tramite la ridefinizione dello spazio e del tempo per-formativo, “autenticando”, nel far ciò, il processo di dissolvimento dell’ideale di una comunità autocentrata e portatrice dell’ordine simbolico del padre.
Ma rendendo giustizia al film, ebbene cosa succede? C’è un viaggio iniziatico di Gelsomina, non si sa se vero o immaginato (e il segreto qui giova), con lei che, muovendosi nella grotta insieme al ragazzo “straniero”, appunto l’altro, sogna/immagina/vive le ombre sul muro di tufo, illuminate da una luce che va e viene e sembra quella di un super8 o, di più, di un vecchio proiettore, forse di una lanterna magica, ombre che ci trasportano dentro la caverna di Platone, dentro la nascita della rappresentazione, del senso, del sogno, dell’eros e –circolarmente- del cinema, cinema di ombre che è prima di tutto nascita e movimento dell’immaginazione –ricorda Cave of forgotten dreams di Werner Herzog. Poi, dopo la ri-nascita, sequenze ravvicinate in una relazione di senso possibile: piano sequenza sulla famiglia ricomposta nei corpi allacciati sul letto in mezzo a uno spazio vuoto, immagine fissa sulla natura inerte intorno, immagine fissa sul letto ora vuoto, deserto -immagini come fotografie mostrate per focalizzare, per memorizzare, per ricordare, come si stesse passando dall’immaginazione al ricordo, in un dire allo spettatore che la storia che abbiamo visto, anzi che tutte le storie si compongono di ricordi immaginati. Stacco. Piano fisso su una porzione della facciata della casa, ora senza più intonaco. Piano fisso all’interno della casa, oramai abbandonata. Piano fisso sulla fuga di porte, oramai cornici di un passato. Stacco. Focalizzazione. Sull’ultima porta un velo accostato che invita ad entrare nuovamente.
Ecco, non indietreggiare. Anzi di più: passare dalla debolezza di Havana Segrand, che considera i suoi “buchi” come falle e mancanze ad essere da riempire, come castrazioni su cui dover applicare, come una pomata psicotica, la violenza (dell’Altro ma anche la sua), alla forza di Alice Rohwacher, al suo, cioè, riappropriarsi della parola, dell’immaginazione, del simbolico che è anche un riappropriarsi della forma, sempre interna a un processo, del ricordo, della memoria, del desiderio e del racconto –tutte meravigliose pratiche di libertà.
Questa bellissima e appassionata sintesi, è vero, può essere una mappa per comprendere il nostro tempo pieno di angustie, l’atomizzazione dei processi di relazione che lo caratterizzano, l’angoscia e l’insicurezza che gravano sul singolo individuo – portatore di una richiesta di significato che incontra invece simulacri, adulterazioni riducenti all’algoritmo assiomatico del consumo, dunque negazioni continue, scotomi dell’essere.
Ed è folgorante l’esplicitazione del valore della parola-simbolo-forma quale strumento, non solo cognitivo, essenziale alla ricerca del senso e della libertà. Anche l’immaginazione si nutre della parola, dunque le possibilità dell’umano possono realizzarsi in modo autentico – e non sotto forma di scoria – solo attraverso l’uso incarnato del logos, cioè del logos ancorato alla corporeità dei processi di relazione, interna ed esterna a noi stessi.
Brava!
Anche oltre/meglio di Cronenberg, Under the Skin ultimo di JG al cine questigiorni (da un racconto di Michael Faber).
Un impasto magicosmico di silenzi, aspro scottenglish, paesaggi battuti dal vento dalle onde furiose e dalla pioggia .. e dalla solitudo in generale.
:/