Nel loro rapporto con il postmoderno, due autori più di tanti hanno finora esplorato le possibilità espressive di un certo surrealismo, chi in modo labirintico, chi in chiave orrorifica. Stesso nome, due cognomi così diversi e ugualmente esotici: uno è Lynch, l’altro è Cronenberg. Intenzionalmente vengono qui accostati, pur essendo il riflettore puntato sul grande regista canadese. Per soli tre anni non sono coetanei altrimenti, con una consueta goliardia, si potrebbero dire «separati alla nascita». Entrambi hanno all’attivo diciannove scritture per altrettante realizzazioni. L’accostamento è inevitabile per il richiamo a “Mulholland Drive” di cui lo spettatore avvertirà senz’altro la suggestione.
Ma si sta divagando.
L’ultimo lavoro di Cronenberg, questo meraviglioso gotico hollywoodiano intitolato «Mappe Verso le Stelle», nasce stavolta dall’incontro con lo sceneggiatore Bruce Wagner ed è, per citare quasi alla lettera le note di produzione, la storia di «una famiglia di Hollywood a caccia di celebrità i cui membri finiscono per darsi la caccia tra loro tentando allo stesso tempo di scacciare i fantasmi implacabili del loro passato». Il risultato ci parla del «famelico bisogno di celebrità e di riconoscimento tipico del Ventunesimo secolo, e dello struggimento, della perdita e della fragilità in agguato tra le ombre che si allungano al di sotto.
Già questo sdoppiamento di luce e ombra (sia pure in metafora), nel cui guado restano intrappolati e soccombono gli umani appetiti, basterebbe ad articolare una trama sufficientemente complessa di sapore classico, come il teatro di Sofocle. E indubbiamente qualcosa di teatrale c’è, in quest’ultimo Cronenberg. Per essere precisi, c’è una ambientazione raccolta, il registro della commedia magistralmente padroneggiato e sublimato. Ma poiché Cronenberg non può accontentarsi di una trama classica, eccolo moltiplicare i livelli di lettura attraverso l’esposizione della carne e l’intersezione di continue citazioni così tipicamente postmoderne, tutte intessute intorno a un contorto stelo di rosa che si allunga dalla radice stessa del Male Assoluto novecentesco, il secondo conflitto mondiale, l’Incendio le cui fiamme hanno avviluppato il pianeta, e ha per fibra la poesia “Libertà”, di Paul Eluard, poeta surrealista, scritta nel 1942. Con un piccolo sforzo si può anche leggerla:
Sui miei quaderni di scolaro
Sui miei banchi e sugli alberi
Sulla sabbia e sulla neve
Io scrivo il tuo nome
Su tutte le pagine lette
Su tutte le pagine bianche
Pietra sangue carta cenere
Io scrivo il tuo nome
…
Su tutti i miei squarci d’azzurro
Sullo stagno sole disfatto
Sul lago luna viva
Io scrivo il tuo nome
Sui campi sull’orizzonte
Sulle ali degli uccelli
Sul mulino delle ombre
Io scrivo il tuo nome
…
Sulle forme scintillanti
Sulle campane dei colori
Sulla verità fisica
Io scrivo il tuo nome
…
Su ogni carne consentita
Sulla fronte dei miei amici
Su ogni mano che si tende
Io scrivo il tuo nome
…
Sull’assenza che non desidera
Sulla nuda solitudine
Sui sentieri della morte
Io scrivo il tuo nome
…
E per la forza di una parola
Io ricomincio la mia vita
Sono nato per conoscerti
Per nominarti
Libertà.
Ecco dunque la dichiarazione iniziale, quasi un manifesto: vi porto dentro un luogo dove la sostanza delle cose è trasfigurata anzi, è la trasfigurazione in sé.
Ma si parlava di citazioni: citazione – o forse dovremmo dire auto-citazione – è il personaggio Jerome Fontana (Robert Pattinson – lo ricordiamo in “Cosmopolis”) che guida limousine a noleggio mentre cerca di guadagnarsi un po’ di celebrità come comparsa e sogna di fare il balzo con una sceneggiatura basata sul mondo di Hollywood, più o meno come Bruce Wagner in persona ha fatto con questo film portandovi dentro la sua esperienza della città e dei suoi set.
Citazione è la presenza di Carrie Fisher nei panni di sé stessa, cosa che aggiunge un tocco ulteriore di surrealismo in quanto non è autofiction, non è cameo e non è divagazione estetica ma crea una ridondanza tra la finzione e il luogo dove la si produce, rimarcando così la vena ironica del regista. Questa figura però merita un approfondimento. Carrie Fisher è la Principessa Leila di “Star Wars” (Guerre Stellari); è lei il contatto che Agatha Weiss abilmente coltiva e sfrutta per rientrare in gioco dopo l’allontanamento dalla famiglia; Agatha è quella che scatena la guerra contro le “stelle” e tra le “stelle” ed è lei la mappa vivente che conduce ad esse. Dunque Carrie Fisher è un meta-personaggio, un multiplo di sé stesso e l’elemento di raccordo in chiave simbolica tra i vari protagonisti della storia. Di più, il ruolo di Carrie Fisher è un meccanismo altamente sofisticato che non solo compendia il molteplice nell’uno ma fa dell’altro. Lei appare all’orizzonte in forma astratta, come evocazione, e subito scompare non appena si materializza davanti ai nostri occhi, eppure è il punto di accumulazione del delirio iconoclasta che si sprigiona attraverso il suo intervento – e a sua insaputa. E intanto, mentre i vari personaggi del film sono finzioni che vogliono rappresentare una certa realtà, Carrie Fisher è l’unico elemento reale che però opera al contrario, come forza traente verso il mondo surreale e trasfigurato.
A suo modo è citazione Benjie Weiss (Evan Bird) nella cui figura non possiamo non riconoscere alcuni collegamenti con quella di Justin Bieber (Canadese. Sarà un caso questa scelta? E una certa assonanza tra i nomi?). Stessi eccessi, stessa età di esordio, stessa capacità di fare soldi a palate con il pop (in due ambiti diversi, OK, ma il succo è lo stesso). Da augurare a JB di non soffrire della stessa psicosi di BW.
Ancora citazione, forse in senso lato, è la presenza costante della tecnologia sotto la forma dei dispositivi ormai entrati nella nostra quotidianità: iPad ovunque; iPhone attaccati alle prese elettriche con i loro cavi che replicano mostruosamente radici di piante che succhiano non più linfa dalla terra ma energia dalle spoglie del mondo; control pad della XBox; sigarette elettroniche; televisori che rimandano l’immagine virtualizzata di Stafford Weiss (John Cusack).
Questi dispositivi sono diventati a tutti gli effetti protesi del nostro corpo le quali, più che integrare le funzioni della vita organica, ne sanciscono la degenerazione nichilista, la vacuità nella vanità, il dissolvimento lungo una scia di disintegrazione verso il basso, il disincarnamento. Dunque tecnologia che nega la giustificazione all’esistenza. E allora, non è questa una citazione di Videodrome in qualche modo?
Veniamo a questo punto alla sostanza del film, alla sua rappresentazione della mostruosità implicita nella ricerca spasmodica della celebrità, di cui sono emblemi soprattutto Benjie Weiss, cui abbiamo già accennato, e Havana Segrand (Julianne Moore, superba), la diva in crisi di nervi per la perdita della notorietà e perseguitata dal fantasma della madre, a sua volta attrice, così come Benjie è ossessionato dai fantasmi di due bambini. Intrigante il fatto che il secondo di questi due bambini abbia a che fare con le sorti di Havana ma entri poi nel delirio di Benjie. Quest’ultimo è figlio del rapporto incestuoso tra Stafford (Cusack) e Christina Weiss (Olivia Williams), la cui unione in realtà ha dato alla luce anche una sorella più grande di età, Agatha (Mia Wasikowska, altro gigante di questo film) la cui insanità mentale persegue da sempre un analogo matrimonio con il fratello e ha cercato di appiccare un incendio purificatore che a suo tempo non ha dato l’esito sperato. Solo un corpo deturpato dalle ustioni.
Insomma, “Maps To The Stars” è una raccolta di mostruosità che sono anche una teoria del disfacimento. Agatha è l’epitome di questa teoria, su di sé ne porta i segni, è essa stessa una mappa di cui Havana non sa leggere il vero significato mentre gli altri ne hanno un istintivo terrore e cercano di allontanare da sé la sua vista, che illustra una cronistoria, un monito, una condanna e una orrenda profezia. Tutti sono troppo occupati a proteggere sé stessi, a nascondersi nell’illusione di una esistenza che possa replicarsi all’infinito mentre invece non può fare altro che autodistruggersi. In quella illusione risiede la prima delle tante mostruosità, come si è detto. Le altre sono tutte nel solco della vanità e dell’ipocrisia che solo nella distruzione possono trovare il compimento della loro parabola (altra citazione, “Il falò delle vanità”, di Tom Wolfe). All’interno di questo schema, l’unica libertà possibile non è di progettare la vita bensì di scegliere la morte. La purificatrice, consolante morte.