“Nel bel mezzo della notte in una casa buia da qualche parte nel mondo…” sussurra Mira , quasi tra se e se, mentre si trova nel letto abbracciata a Jonathan , il grande amore della sua vita, che le domanda cosa significhi quello che sta dicendo: “Niente, un vecchio sceneggiato televisivo”. Forse bisogna partire dalla fine per dare una cornice a questa riedizione di Scene da un matrimonio, pieno di audacia e al tempo stesso di amorosa dedizione nel confrontarsi direttamente con l’originale del 1973, testo e regia di sua sommità Ingmar Bergman , che è stato il primo a mettere sulla scena della quotidianità domestico/familiare , conflitti e dilemmi fino a quel momento riservati, anche da lui stesso, ad opere con una più ampia ed esplicita speculazione esistenziale e un respiro visionario e allegorico ; questa volta non c’erano cavalieri medioevali a giocare a scacchi con la morte, scenari metafisici in cui interrogarsi sulla presenza di Dio o l’esistenza dell’anima, e neanche la necessità di indagare la scissione tra identità e immagine nella decostruzione del linguaggio e nella ricerca di nuove forme (Persona, certo). Le più insondabili domande e la conseguente angoscia per la mancanza di risposte, se le ponevano una coppia della media borghesia svedese, Johan e Marianne, i classici tipi della porta accanto con tutti i loro già stanchi rituali: occuparsi delle figlie, gestire la casa , andare al lavoro, coltivare una socialità fatta di cene con gli amici , serate a teatro, vacanze organizzate, pranzi domenicali dai rispettivi genitori.
In questo tessuto , osservato e raccontato da Bergman con un prologo quasi da antropologo o da sociologo -il primo episodio si apriva con una giornalista incaricata di fare un servizio su Johan-Marianne , la coppia perfetta , “legata come i maialini di marzapane della nostra infanzia” come avrebbe commentato poi ubriaco e sarcastico Peter, l’amico in feroce e impossibile rottura con la moglie Katarina- si innestano inquietudini e dubbi sempre più profondi e “scandinavi”, proprio nel senso di luogo geografico dove il freddo e la mancanza di luce spingono naturalmente verso l’introspezione e l’autoanalisi . Interpretati da una Liv Ullman e un Erland Josephson cosi affiatati, precisi e convinti da far ricordare al perennemente insoddisfatto Ingmar , nel suo libro Immagini, come “piacevoli e veloci” le riprese , Johan e Marianne non si limitano solo a lasciarsi e a parlare, a litigare, a picchiarsi sulle cause della loro separazione: i loro interrogativi vanno ben oltre, toccano nodi cruciali come il modo in cui si sta al mondo, l’immagine che scegliamo di dare di noi stessi , in parte per i condizionamenti di una società tanto rigida e strutturata, ma anche per la nostra codardia , indecisi a scegliere tra la staticità e la fuga, quasi mai propensi ad una reale trasformazione, allo sradicamento delle proprie convinzioni e alla volontà di scoprire nuovi sensi e nuove direzioni . Bergman a un certo punto, in maniera partigiana e spudorata, attribuisce a Mariananne il coraggio di rivoluzionare se stessa e il mondo in cui è cresciuta (“Sono come sono ed è colpa vostra!” urla contro un ferito e sarcastico Johan , scatenandosi poi in un ‘invettiva contro le gerarchie familiari e la società che appare come una risposta a quella iconoclasta e anarchia di Marlon Brando durante la sodomia al burro di Ultimo tango a Parigi); Johan , al contrario, gradualmente più dimesso e vittima, si fa portavoce di un ‘amara saggezza : “Noi siamo degli analfabeti …..ci hanno insegnato tutto, ma non ci hanno insegnato nulla sulla nostra anima e sui nostri sentimenti”. Anche i titoli dei sei episodi sono ora metaforici (“L’arte di nascondere la spazzatura sotto il tappeto” “Innocenza e panico” ) ora evocativi e poetici, come , appunto, “Nel bel mezzo della notte in una casa buia da qualche parte nel mondo” , che, pur essendo pensato per l’’ultima puntata, sembra un incipit dantesco su una condizione, come quella della coppia, che presuppone un continuo ciclo in successione di inferno, purgatorio e paradiso.
La citazione esplicita della versione precedente sottolinea l’inquadramento meta linguistico di questa del 2021 diretta sempre per la tv (in Italia è trasmessa su Sky Atlantic dal 20 settembre) da Hagai Levi che, con le parole , la psiche e i sentimenti ha una certa dimestichezza avendo prodotto la serie In Treatment incentrata su uno psichiatra e i suoi pazienti: all’ inizio di ogni episodio infatti vediamo alternativamente i due protagonisti, Jessica Chastain e Oscar Isaac (meritevoli di un commento a parte) arrivare sul set e poi a cominciare a girare , come succedeva in Vanya sulla 42a strada , magistrale adattamento checoviano diretto da Louis Malle che mostrava il fluido passaggio dei suoi attori dal fuori al dentro del palcoscenico , quasi senza soluzione di continuità. Non si tratta solo di un giochetto o di un vezzo, in particolare visto il precedente cosi significativo e ingombrante di cui abbiamo parlato: un paradigma per ogni successivo racconto sulla crisi di una coppia sposata , declinato volta per volta nella forma di una boutade nevrotica in Storia di amori e infedeltà di Paul Mazursky o come agrodolce commedia drammatica nel recente Storia di un matrimonio di Noah Baumbach , solo per citare due titoli . Jessica e Oscar ci accompagnano all’entrata e all’uscita delle “prescritte realtà” (espressione che piacerebbe a Bergman) di Mira e Jonathan che sono, anche qui con un approccio sociologico , posizionati dentro il loro tempo : questa volta è il personaggio femminile che tradisce , se ne va, esprime un senso di inadeguatezza rispetto al feroce e competitivo mondo del lavoro , alla fatica di mettere insieme tutte le molteplici identità e funzioni richieste ad una donna, come del resto succedeva anche alla Marianne del 1973 , solo in una forma più passiva e subita , reattiva e non attiva. Radicalmente diverso è invece Jonathan rispetto a Johan , non solo perché spiazzato e anticipato dagli irrequieti spostamenti di Mira, ma soprattutto perché pieno di divieti, timori e insicurezze molto ben caratterizzanti la grande ferità narcisistica dell’uomo contemporaneo: seppellire le proprie fragilità sotto l’armatura del buon senso , della formalità, del rigore, salvo poi riproporle ammantate con la trama oscura della rivendicazione e del rancore , come nella scena molto forte e molto erotica della sodomia dove il piacere dell’abbandono alla vulnerabilità da parte di Mira, solitamente schermata e trattenuta, è controbilanciato dal conseguente controllo e potere emotivo e psicologico che ne ricava, o vorrebbe ricavarne, Jonathan su di lei .
Eppure sarebbe riduttivo , affrontare questo nuovo Scene da un matrimonio solo in un confronto filologico con l’altro svedese, anche se per chi , come il sottoscritto , sa quasi a memoria l’originale non si può non provare un sottile piacere nel riconoscere alcuni particolari, come quando Jonathan, venuto a conoscenza che gli amici comuni avevano saputo prima di lui che Mira lo avrebbe lasciato per un altro uomo, sbatte il telefono , urla e si morde la mano allo stesso modo di Mariane/Liv Ullman nella medesima situazione: Hagai Levi, sempre in tema di prescritte realtà ,fa anche un lavoro sull’immagine e sul tempo differente rispetto al naturalismo di Bergman , che puntava tutto sui primi piani e sui campi-controcampi, con una descrizione accurata ma essenziale dell’ambiente intorno alla querelle dei due sposi spezzati .Abbassando l’età dei personaggi , è come se si percepisse lo scorrere di un dinamismo, una freschezza e un’ energia che non potevano esserci nell’arco narrativo più dilatato durante il quale si consuma e si riaccende in continuazione il desiderio tra Johan e Marianne, con un senso di morte, tema bergmaniano per eccellenza, che spuntava dietro l’angolo di ogni malinconia o delusione ( e la consolazione di un abbraccio riproposto , trent’anni dopo ,nella nudità totale di una vecchiaia senza appello in Sarabanda); l’edizione 2021 è avvolta da una ricchezza cromatica, che va dai toni giallo-arancio dell’alba e del tramonto alle sfumature di blu scuro della sera e della notte, in grado di ricreare una dimensione onirica della casa, il prevalente spazio scenico, dentro la quale viene rappresentato ogni passaggio della storia di Jonathan e Mira: l’innocenza, il panico, la rottura e la riconciliazione. Un luogo che, attraverso i movimenti suadenti e intimi della macchina da presa, si fa espressione tangibile e fisica di un vissuto specifico , l’accumulo della polvere ( “Più dei miei anni sento solo un’apparenza, ma la polvere che ho sulle mie mani è una cosa certa” cantava Cristina Donà) e l’impressione che l’amore, in tutti i suoi periodi e le sue manifestazioni, lasci un’impronta concreta.
Di fronte al modo in cui viene filmato il crescendo di emozione e coinvolgimento tra Jonathan e Mira, vengono in mente le riflessioni sull’amore contenute in un film molto distante da Scene da un matrimonio, ma per certi versi collegato da un’affinità elettiva: Interstellar , fantascienza filosofica ed intimista di Christopher Nolan , in cui a un certo punto Matthew McConaughey , astronauta prescelto per cercare un nuovo futuro per l’umanità nello spazio in prospettiva del consumarsi delle risorse terrestri, si rende conto che l’amore non è solo un pensiero astratto creato dagli uomini, ma un’energia reale che può intervenire sulla materia, lasciare una traccia, stabilire un collegamento( e salvare gli esseri umani non solo simbolicamente). È quello di cui in fondo parla anche la signora Jacobi, una delle clienti dello studio divorzista di Marianne, nello Scene da un matrimonio svedese, quando chiede la separazione dal marito perché non lo ama e spiega che il vivere in “questo non amore” ha compromesso la capacità di percepire sensorialmente l’essenza di ciò che la circonda(gli alberi, gli oggetti), una condizione ben espressa dall’immagine delle due mani che tentano di spalancare un’immaginaria porta chiusa.
Ecco, la casa di Jonathan e Mira viene trasfigurata fino a divenire un grande cuore pulsante e palpabile , che coinvolge lo sguardo empatico dello spettatore, il suo essere partecipe di quell’esperienza e non solo osservatore. Il duetto tra Jessica Chastain e Oscar Isaac, infine, nello scambio di tenerezza e crudeltà, rabbia e accudimento, incomprensione e vicinanza, è uno dei più generosi e commoventi tour de force attoriali di questi ultimi anni inariditi da una serialità tanto efficiente quanto talvolta un po’ asettica: lei, battezzata peraltro direttamente da Liv Ullman che la diresse in un adattamento cinematografico de La signorina Giulia di Strinberg, possiede quel misto di infantilismo e seduzione, la risolutezza della mistress crepata da un brivido di commovente spaesamento; lui, ingrigito al calor bianco di un sentimento irripetibile per quantità e qualità, reitera l’intensità del gesto conclusivo nell’ultimo film di Paul Schrader di cui è protagonista, il collezionista di carte: quelle dita di una mano che sfiorano il vetro separatorio dell’uditorio di un carcere , dove dall’altra parte ci sono le dita della mano della donna amata (citazione del finale di Pickpocket di Robert Bresson, già rifatto da Schrader anche in American Gigolo). Anche grazie a loro due, Oscar e Jessica, mi rimane sempre lo stesso pensiero, come subito dopo l’uscita dalla full immersion all’ultimo festival di Venezia dove è stata presentata la miniserie completa: che voglia di andare a trovarli nel bel mezzo di una notte, in una casa buia, da qualche parte nel mondo.