In alcuni passaggi folgoranti di Luce d’agosto, William Faulkner scriveva su come fosse difficile per chi ha smesso di avere ogni speranza per tanto tempo dover cominciare a farlo all’improvviso, da un momento all’altro. Un po’ come se dopo tanti anni di blackout, il meccanismo per sperare avesse bisogno di molto più di ventiquattr’ore per accendersi o per mettersi in moto.
Il nuovo film di Jean-Marc Vallèe, invece, mette in scena alla perfezione i sintomi che fanno divampare una reazione a catena emotiva istantanea e imprevedibile, filmando in modo magistrale come si possa passare da una sorta di rassegnazione fredda al perdersi, da un’ostinazione rabbiosa e febbricitante al resistere.
Dallas Buyers Club è uscito nelle sale italiane proprio nei giorni dei disagi più clamorosi delle grandi piogge di inizio febbraio. Di fronte a una specie di disastro, nei treni stracolmi e abbandonati nel nulla, l’unica voce di protesta dei pendolari sembrava quella che evocava l’intervento della telecamera di Striscia la Notizia. Al cui confronto, l’epica irriducibile e ossuta di Matthew McConaughey contro l’Hiv sembra quasi estremista, o sembra quella di un supereroe della Marvel.
In un certo senso -e con le dovute distinzioni- forse il problema è che noi italiani ci adeguiamo a tutto. Come se fossimo assuefatti a quelle facce dei nostri attori tipo Servillo, che con le stesse espressioni e gli stessi accenti dialettali riescono a impersonare tutto e il contrario di tutto. Assistere al restringimento delle ossa del protagonista di Dallas Buyer club in questo senso è una specie di shock fisico.
Leggevamo come giustamente Fabiana Proietti, in una recensione del film su Sentieri Selvaggi, paragonasse l’ostinazione e la macellazione corporea di McConaughey a quella di Mickey Rourke in The Wrestler. Gli effetti sulla carne sono gli stessi, ma se in Aronofsky la disperazione porta ad un nichilismo cieco e fuori dalla realtà, in Jean-Marc Vallèe la mancanza di alternative porta ad un pragmatismo e ad sublimazione del sogno americano che finisce per viversi direttamente sulla propria pelle. Nei panni di Ron Woodroof McConaughey sembra dare un’interpretazione fisica costruita sull’impalcatura degli istinti più legnosi, barbari e senza alcuna metafisica che avrebbe potuto offrire il miglior Cristhopher Walken, personificando le contraddizioni di chi è riuscito a costruire un solido giro d’affari proprio mentre stava per morire.
Altrettanto riuscita nel film la prova di Jared Leto nei panni di un trasgender ossessionato da Marc Bolan ma che, nei fatti, sembra molto più pronta a incarnare la sensualità fragile e distruttiva della bellissima Jennifer Herrema degli indimenticati Royal Trux.
Va apprezzato come la capacità del regista si assesti sia nell’inscenare un intensissimo film di denuncia contro l’avidità delle case farmaceutiche sia nel ritrarre e valorizzare tutte le scintille e le scorie che lo scontro tra la strana coppia Leto-McConaughey poteva produrre. I siparietti tra i due passano imprevedibilmente dal drammatico, al comico al sexy paradossale e lasciano sempre spazio al peso intenso dei dettagli.
Emblematico il rapporto del protagonista con il proprio personalissimo clown da Rodeo, che Ron riuscirà a mettere a fuoco solo nella struggente e indimenticabile scena finale.
è vero! certe volte, guardando alle nostre miserie e medietà, ti viene proprio la voglia (e la rabbia) di rivalutare il vitalismo e la fame di epica degli americani… guarda redford in All is lost, per dirne un altro…