Nel finale di Post mortem, , secondo film della trilogia sulla dittatura cilena realizzato da Pablo Larrain dopo l’esistenzialismo individualista di Tony Manero e prima di No-I giorni dell’arcobaleno, la riflessione più esplicitamente politica sul rapporto tra potere e comunicazione, il protagonista , un coroner dell’obitorio di Santiago, per evitare un destino da desaparecida alla donna che ama, la mura praticamente viva nel cortile di casa sua, immagine limite di questo melodramma su come il microcosmo delle relazioni personali possa riproporre i meccanismi della società: controllo, segregazione, possesso. In questa maniera, infatti, Mario crea un debito eterno, post mortem appunto , dove la salvezza e la condanna hanno lo stesso, lugubre aspetto ( un muro, un limite, una separazione e non una possibilità). Forse è per questo che l’i inquadratura dall’alto della minacciosa e monolitica Sandringham House , residenza di campagna della famiglia reale inglese, rimanda a questo momento del cinema di Larrain, ovvero qualcuno che costruisce una prigione per una donna, nell’incipit di Spencer: la lady in questione è ovviamente Diana , di cui quest’anno ricorrono i sessant’anni dalla nascita e che ha visto riesumare la sua parabola tristemente iconica oltre che da questo film, anche dalla nuova stagione della serie The Crown, lucida e tutt’altro che edificante ricognizione sugli interni notte degli x files della royal family (da Elisabetta di Windsor in poi, off course).
Se il precedente film di Larrain, il vitale, eccessivo , pulsante Ema, attraversato da un’eroina fluida e al tempo stesso carnale al ritmo irresistibile di un reggaeton, era visivamente pieno di fiamme ed eros, vista l’attitudine incendiaria e seduttiva della protagonista, questa nuova incursione nella biografia di una first dame ha le stesse atmosfere spente e oblique di Jackie: infatti, come quando ci viene presentata la signora Bouvier in Kennedy, la tragedia in qualche modo è già avvenuta, anche se non quella scioccante di essere travolta dal sangue del proprio marito assassinato; c’è comunque la consapevolezza di una condanna all’ infelicità e forse l’intuizione di non poterne uscire fuori con un lieto fine. Il mondo di Diana è stato per buona parte della sua breve esistenza fatto di geroglifici, come ebbe a scrivere Edith Wharton dell’aristocratica società newyorkese di fine ‘800 ne L’età dell’innocenza , ma lo sguardo non è quello caldo, intenso eppur implacabile nel descriverne l’aspetto escludente e punitivo di Martin Scorsese che ne fece un sublime adattamento cinematografico . C’è una certa freddezza concettuale nella messa in scena dei giorni di quel Natale del 1991 , poco prima che Diana chiedesse il divorzio , esasperata dalla coppia Carlo/ Camilla e dalla serrata, feroce sorveglianza a causa dei suoi comportamenti sempre più provocatori.
E tutti i componenti della famiglia reale, in particolare Elisabetta che pronuncia una sola battuta, sono parossisticamente ridotti a orecchie e occhi che ascoltano e guardano , o delegano gerarchicamente per farlo, e poi agiscono in modo da innalzare un muro di cinta ancora più alto intorno al corpo, vibrante e nevroticamente sgusciante da qualsiasi abito etichettato, di Diana. Larrain rappresenta in maniera statica un contesto verso il quale prova diffidenza e a cui non vuole avvicinarsi, facendo ricorso con un schematismo talvolta puerile, e vi oppone la dinamicità e l’insofferenza di una giovane donna che lotta con caparbietà per riprendersi il suo status di ragazzina spensierata, di cui è stata a un certo punto bruscamente privata. Anche se in un clima spettrale, uno degli archi portanti del racconto è proprio quello del gioco , con Diana che sottrae i figli William e Henry alle regole adulte di un ricevimento magniloquente e meccanico, e crea una dimensione intima, divertente, uterina da contrappore all’ “aria intrisa dell’odore soffocante delle precedenti regine”, che nell’arco dei secoli hanno abitato le stanze di quel Castello grondante decadenza più che dignità.
Questo aggrapparsi alla fanciulezza perduta e probabilmente idealizzata per sopravvivere allo stress bulimico e autolesionista dei qui quanto mai sadici Windsor, regala qualche bella suggestione visiva, come quella in cui Diana riconosce e recupera il robusto cappotto sdrucito del padre dallo spaventapasseri nel campo confinante dove c’era la tenuta di campagna , ormai derelitta, degli Spencer e vi appende un suo grottesco abito da coktail color canarino, alla fine diventa un limite che sarebbe stato stimolante seguire con più convinzione, una chiave di lettura per andare in maniera verticale nel suo tormento tutt’altro che infantile o regressivo . Incastrata nella contrapposizione manichea tra l’ancien regime di una dinastia votata alla conservazione e le innocenti trasgressioni di una ragazzina che alla fine vorrebbe ballare da sola una canzone , non viene tematizzata un’intuizione più complessa e interessante: la vicenda di Diana è in fondo emblematica e anticipatoria di un processo di alienazione, di sradicamento della propria identità e di necessità di essere omologati in una categoria o in un’altra che comincia con l’invasione dell’obiettivo della macchina fotografica o della telecamera nel proprio spazio privato. La scena in cui , con una cesoia, rompe la cucitura fatta alle tende dalla sua assistente per non farla spiare dai paparazzi assatanati, è significativa di quanto Diana avesse un bisogno compulsivo di essere osservata e ripresa, come se l’atto voyeuristico, alla base del quale c’è anche una forma di amore seppur ossessivo e perverso (perché schermato e sublimato), fosse divenuto per lei l’atto fondante identitario, la ragione del suo stare al mondo. È impossibile non pensare che è da allora che è cominciata una proliferazione e una degenerazione di quel bisogno, oggi che tutti nel nostro anonimato ci mettiamo continuamente in mostra e cerchiamo amore e riconoscimento nella vacuità di un gesto reiterato come il like virtuale , senza peraltro più entrare in contatto con quello sguardo come accadeva a Diana, il cui corpo veniva letteralmente dato in pasto ai flash dei fotografi: saturi di immagini subite e generate, abbiamo smarrito un immaginario.
Anche Larrain offre alla sua iconica martire dell’apparenza una forma e un immaginario alternativi in cui poter esistere: la bambina danzante e disubbidiente, in contrapposizione all’altra versione che i manovratori di palazzo hanno previsto per lei: un’identificazione con il più tragico destino da regina, quello di Anna Bolena, decapitata da re Enrico VIII . Nel film, con un passaggio quasi alla Rebecca, la prima moglie, dove Joan Fontaine veniva fatta impazzire dalle manipolazioni della governate morbosamente legata alla memoria della precedente, defunta moglie di sir De Winter/ Laurence Olivier, è proprio l’ambiguo ex militare assoldato come guardiano e neanche tanto velato carceriere di Diana, a farle trovare la biografia della Bolena sul letto .E la tesi secondo cui la famiglia reale possa aver spinto intenzionalmente la moglie sull’orlo del baratro paranoico per poterla controllare meglio semplifica la vicenda e ne annulla in parte il potenziale meta narrativo, ovvero il raccontare qualcosa che riguarda l’inizio del cambiamento dell’auto ed etero percezione di una collettività, non solo un fatto o un’ipotesi ; la stessa frase di apertura dei titoli di testa, “ una favola tratta da una tragedia vera” , non appare molto diversa dalle frasi con cui i mass media e i tabloid hanno raccontato , creando una nuova mitologia punto zero che continua ad avere gesta e trasgressori ( Henry e Meghan ovviamente). Così, per riscattare in qualche maniera Diana verso la quale prova una chiara empatia azzerando anche le contraddizioni e le ambiguità, Larrain, come il Mario di Post mortem, la confina in un altro recinto da favoletta pop, con un crescendo edificante e consolatorio , su cui aleggia (fortunatamente) un tocco di humor nero e di disincanto.
Quello che è veramente ispirato e commovente e ci porta continuamente dentro e fuori questo poker di gabbie, ribellioni e spostamenti di senso è la performance miracolosa di Kristen Stewart, ormai decostruita e rigenerata dallo sguardo ontologico e post romantico di Olivier Assayas ( le nuvole di Sils Maria, Personal Shopper) : è grazie a lei, alla sua capacità di elaborare anche un vissuto personale da “principessa del popolo”, lei, l’eroina della saga popolare e giovanile di Twilight, esposta all’arena del mondo del gossip, capace di comprendere profondamente il sentimento di Lady D., e la sua scissione tra donna e personaggio, tra ricerca della propria verità e smarrimento nella rappresentazione altrui. Non ci stancheremmo mai di vederla camminare lungo i corridoi della propria fantasmatica memoria con gli occhi pieni della bramosia per quello che deve ancora succedere e in sottofondo la straniante colonna sonora jazzata ed elettronica di Johnny Greenwood dei Radiohead (l’altra cosa più bella del film), sempre in cerca di un’uscita sicurezza dal cliché di cui è vittima e complice, affamata di una nuova interpretazione di se stessa, che non ha ancora nome o identità, e nel frattempo si cela dietro un cognome, una dinastia, un casato: Spencer.
E Kristen/Diana, per un momento, sembra che abbia anche il potere di fermare i versi della canzone di Elton John un attimo prima della catastrofe: “Mi sembra che tua abbia vissuto la tua vita come una candela nel vento…”
straordinaria spencer/stewart accostamento non scontato, me l’ero perso questo Larrain che sempre mi incolla allo schermo anche su un terrazzo in una sera di un agosto qualsiasi. Piacevole sorpresa, puntuale sempre fabrizio