I primi minuti di Madres Paralelas, pronto ritorno al film lungo di Almodovar dopo il fiammeggiante e concettuale mediometraggio The Human Voice con l’anglofona Tilda Swinton, nonché  alla lingua madre dell’adorata Penelope Cruz, contengono già  una serie di linee narrative nelle quali ci si vorrebbe perdere d’impulso , per scoprire dove e come il labirintico maestro spagnolo le farà incontrare, sovrapporre o separare, nell’ attesa di una rivelazione, nel sentimento sperduto di un mistero o nel disincanto di un inganno. Penelope stavolta  interpreta la sicura ed energica Janis, che fa la fotografa, e chiede  a un affermato antropologo forense a cui realizza un servizio di aiutarla a disseppellire il corpo del bisnonno trucidato dai franchisti e sepolto in un campo anonimo durante la guerra civile spagnola: la ricerca e lo svelamento della verità rispetto ai brutali eccidi del regime fascista iberico introduce un tema dal quale viene repentinamente e momentaneamente spostata l’attenzione, visto che tra Janis e l’antropologo scoppia una passione, che porta poi la donna a rimanere incinta e a trovarsi a condividere la stanza con Ana, una ragazza ancora minorenne, senza il reale sostegno dei genitori per quell’inaspettata gravidanza.

Le trame “parallele” sono dunque tre: c’è il classico melò (Arturo,  l’amante di Janis è sposato, con una donna malata terminale di cancro che non può abbandonare), il film di donne ( tra Janis e Ana si stabilisce un rapporto di protezione e solidarietà che rimanda , tanto per non spostarci dall’immaginario almodovariano, a Tutto su mia madre e, ancora prima, al bergmaniano, emblematico Donne in attesa ) e c’è, in maniera più inedita per il suo cinema,  l’inchiesta con piglio quasi documentaristico  sul più terribile e sanguinoso periodo della recente storia spagnola: in alcuni momenti viene da pensare addirittura a Terra e libertà di Ken Loach; pur chiaramente nella diversità estetica e narrativa, per la similitudine con un sentimento di indignazione e sgomento, nella caparbia volontà di far emergere il passato ( letteralmente , dalle fosse comuni) e ricostruire una verità, che passa anche dalle ricomposizione delle ossa ritrovate in loco dei corpi dei combattenti partigiani.

Almodovar  potrebbe concentrarsi su questa ricchezza di prospettive , e invece Il racconto principale , quello che occupa la parte più sostanziosa , è incentrato sulla relazione tra Janis e Ana e sul doppio filo che le lega; e seguendo il ribaltamento prospettico introdotto da Alfred Hitchcock ne La donna che visse due volte, dove la percezione transita dallo sguardo obnubilato dal desiderio e ossessionato dalla colpa di Scottie a quello di Judy/Madeleine, schiacciato dalla consapevolezza della verità e dall’ineluttabilità dell’amore , svela il “mistero” ancora prima della metà del film : Janis , incerta fin da subito e provocata anche dai dubbi di Arturo sulla paternità della bambina, fa un test e scopre di non essere la madre biologica , ricostruendo uno scambio  con la figlia di Ana, durante un periodo di osservazione in ospedale. Di fatto ,  il bisogno di sapere e di conoscere da parte di Janis potrebbe essere il movimento intorno a cui gira Madres Paralelas, ma il fatto che non lo riveli immediatamente ad Ana , ne fanno in qualche modo anche una manipolatrice, una persona capace di occultare un’informazione di tale peso e importanza , in forza di quello che a un certo punto sembra essere un terrore narcisistico , la paura di perdere il controllo sulla propria vita, ma anche su quella di Ana e di Arturo che dopo la nascita della loro (presunta) figlia vorrebbe riavvicinarsi a lei .

Sempre in tema di diversi modi di declinare il concetto di maternità, c’è anche Teresa , la madre di Ana, che spinta dalla propria ambizione di diventare attrice, lascia la figlia e la neonata nipote: anche qui Almodovar continua a fare i conti con il proprio mondo, citando in parte Tacchi a spillo, sul rapporto ostile tra una figlia ferita e una madre egocentrica, a sua volta parafrasi del kammerspiel familiare per eccellenza , Sinfonia d’autunno (sempre Bergman) con Ingrid pianista insofferente alle recriminazioni e alla rabbia della figlia abbandonata e delusa, Liv Ullman.

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Bisogna riconoscere d’altronde che l’impulso di perdersi come unica possibilità per potersi ritrovare in un senso e in una forma nuovi , come diceva il pianista jazz Herbie Hancock a proposito della musica, viene prosaicamente raffreddato nel mantenere il filo o  i fili della narrazione, e ci si perde, smarrendo anche il perturbamento e la vertigine hitchcockiani, anche solo nel provare a raccontare i “fatti”. Capita a volte (per chi scrive molto raramente) allo sguardo di Almodovar di affievolire il proprio slancio e la propria ispirazione , intatti e vivi nel precedente capolavoro Dolor y gloria, ma molto appannate nel film ancora antecedente , Julieta. Madres paralales  resta sospeso,  come due linee appunto, che invece di trovare una forza e un amplificazione nel raddoppio degli incontri e degli avvenimenti, come succede spesso con il cinema eterno specchio della vita, si sgretola e si depotenzia per una sorta di ansia d’espressione, di volontà di enunciare qualcosa che è chiaramente molto caro ad Amoldovar , ma questa volta arriva in maniera sfocata.

Questa perdita di centralità , che rende comunque giustizia alla sua umanità e a un entusiasmo non addomesticato a una presunta maniera ( il continuo riferimento a codici estetici e narrativi del proprio cinema rischia di risultare stucchevole: Almodovar ha cominciato a fare film “all’Almodovar” ?), lascia particolarmente spiazzati quando fa virare la relazione tra Janis e Ana in una chiave sentimentale a cui è difficile credere per le stesse interpreti, come la Cruz, dinamica e determinata come sempre in Almodovar, ma davvero poco convinta nel tramutare il suo affetto da sorella maggiore nei confronti della giovane amica (Milena Smit, carismatica come presenza, meno incisiva come personaggio) in un contatto anche erotico: il fatto che possa essere possibile non vuol dire che sia credibile, e infatti è una situazione che viene rapidamente accantonata ; abbastanza opaco è anche il personaggio di Arturo, e non solo per l’incapacità di compiere una scelta, in collusione con l’atteggiamento ambiguo di Janis che nasconde sotto la rivendicazione di autonomia ed emancipazione, una fame di relazione e calore. Tutto accade in maniera un po’ meccanica, le partenze come i ritorni , e sembra che manchi il vento caldo de La Mancia a mescolare e spettinare quelle parallele che vanno a precipitare in un vuoto incapace di generare imperitura memoria , laddove il cinema di Pedro ci ha spesso abituati a picchi con panoramiche avvolgenti e carnali.

Eppure ,c’è un’immagine che rimane ed emoziona: i resti dei corpi dei desaparesidos che si materializzano sotto gli occhi di Janis , testimone, anche nel suo sguardo di fotografa, di un lutto che da privato si fa collettivo, e che reclama la necessità di possedere una dimensione fisica tangibile, evocazione più potente di qualsiasi mortifero effeto digitale o asettica correzione virtuale di (post)produzione.

Vorremmo dare ulteriore sostanza a quella imperitura istantanea realizzata grazie al corto circuito spazio-temporale che consente il cinema: non solo con la bella citazione dello scrittore ecuadoregno Eduardo Galeano che chiude il film, ma anche con le parole più partigiane pronunciate durante il funerale di David Carr, protagonista del film di Loach, militante inglese e sostenitore della causa di liberazione spagnola dalla dittatura militare: “-Li seppelliremo in questa terra. In questa terra che ora ci appartiene e da cui trarremo la forza per continuare a combattere. La battaglia sarà lunga e i nemici sono numerosi. Ma noi siamo ancora più numerosi. Saremo sempre più numerosi. Il domani è nostro compagni!“.

L’unica linea retta, essenziale ed epica insieme, che si innalza e sopravvive sopra le geometrie polisentimentali di un melodramma che intriga e non incanta. Non per questo resteremo insensibili all’ascolto del suono della prossima sirena di Pedro.

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