Marcos Pincu, 36 anni, argentino, ricercatore agricolo, vive e lavora dal 2002 in Italia. E' appassionato di rugby, sport che ha praticato con onore quando era più giovane. Di se stesso scrive: "Nato a Chos-Malal, (Provincia del Neuquén), Patagonia, piccolo paese ai piedi delle Ande, dove il vento la fa di padrone e dove la parola vicino significa: meno di 190 km per strada a scorrimento tutto altro che veloce. Contaminazione cerebrale avvenuta nella città di Buenos Aires, negli neri anni 90 del menemismo, dal 2002 vive in Italia, nel 2003 è riuscito per prima volta a capire delle battute in romano, adesso, oltre che mangiare piadine, cerca di imparare anche un po' di romagnolo, ma la nebbia ancora non la sopporta".

 El Diego, così chiamiamo noi argentini Maradona, e non El Pibe de Oro, e neanche Pelusa, fondamentalmente è uno di noi, ma soprattutto è quanto l'immaginario collettivo vorrebbe che fosse stata la propria vita; certo, per quel frangente delizioso della gloria, della fama, maradona tifosodella ricchezza, e perché no, anche per qualche eccesso, per qualche "licenza per uccidere" senza troppo impegno, prendendo una scorciatoia anziché la strada più faticosa.

Credo che Maradona sia stato, soprattutto dopo la guerra delle Malvinas, l'arma che non abbiamo mai posseduto: abbiamo messo nei suoi piedi il siluro che prima o poi avrebbe dovuto vendicarci e quel giorno è arrivato nel modo in cui lo avevamo sognato, o meglio, come se si fosse materializzato dalle chiacchiere tra bambini quando dicono di avere degli amici fantastici con tanto di poteri soprannaturali che possiedono navi magiche e che li portano in giro per l'universo.

Così è andata quel pomeriggio di Mèjico '86, doppietta di un altro mondo, un gol fatto addirittura con malizia, con una furbizia di quella cattiva, di quella che, ahimè, piace a tanti di noi. Il popolo, "il grande popolo argentino", proclamava col cuore in gola la sua saggezza per aver scelto l'eroe giusto a cui non mancava niente: nato povero, nel profondo capitalismo latinoamericano, lui un cabecita negra (testina mora, frase dispregiativa rivolta dalla borghesia argentina ai poveri) ce l'aveva fatta, non solo, aveva vinto per noi.

Da quel momento in poi la sconfitta nella guerra era stata "pareggiata", anzi, la partita tra Argentina e Inghilterra si era conclusa in un campo di calcio e alla fine avevamo vinto per 2 a 1. L'ho pensato allora e lo penso adesso, non è stato mica facile per Maradona gestire la situazione (se possiamo dire che l'abbia mai gestita), soprattutto quando sono cominciati i problemi: la stessa folla che impazziva per i suoi gol, i politici, i giornalisti, hanno iniziato un processo di tritacarne dell'idolo a cui lui ha risposto posizionandosi apposta fuori gioco, provocando, offrendo l'altra guancia, non da buon cristiano, ma perché è uno che ama la sfida. Va fino in fondo ai suoi vizi, non si risparmia e continua a far innamorare la maggioranza del paese con questo suo modo di essere, col il suo populismo che diventa tale solo quando il fenomeno viene analizzato dai sociologi (non da lui, a cui queste cose non interessano).

Un giorno, mentre viaggiavo sulla metro di Buenos Aires, cercavo quasi noiosamente di leggere sui muri per capire la città con quelle sue scritte; ti accorgi dei quartieri benestanti non solo per via delle tegole rosse, ma soprattutto per i graffiti importati da chissà quale metro degli USA, e scopri anche gli amori calcistici della zona: un ¡Aguante River! qua, un ¡Dale Boca! là, un milicos genocidas, e accanto, Menem presidente, tutto insieme, vecchi rancori, nuove mode, e ti dici, ma sì, tutto come allora. Una scritta nei pressi della stazione Belgrano R., mi aveva colpito per la sua semplicità: Diego, vos hiciste todo lo que tenías que hacer (Diego, hai fatto tutto ciò che dovevi fare).

Non ci sono spiegazioni per queste parole in Argentina, tutti sappiamo cosa significano. Significano che con quella figura ci sentiamo protetti, che apparteniamo ad un qualcosa di comune, che non è tutto perduto, che c'è qualcosa che ci unisce, che ci fa guardare negli occhi per lo meno per alcuni secondi in quella carrozza anonima, e che poi, una volta allontanatisi dai quartieri alti, "Diego" è il solo a restare, è il legame invisibile tra noi: c'è chi lo ama perché è uno di loro; chi perché gli piace la bailanta, la musica dei quartiere bassi; chi perché Maradona è di Boca; chi, come mio padre, perché "è il più grande di tutti i tempi, te lo dico io che ho visto giocare Pelè e Distefano"; chi (quasi tutti) "perché ha fottuto i figli di mille puttane, quei pirati, imperialisti, coglioni degli inglesi…"; chi perché è guevarista (?); chi perché è peronista (?); infine chi perché, odiandolo pubblicamente se ne è fatto un nome.

E io perché gli voglio bene? Per quello che ho scritto, perché ha fatto quel che doveva, niente di più; e lo ha fatto come nessun altro al mondo. Vinceva da solo, con la sua sola presenza, perché quando la palla stava per arrivare ai suoi piedi si sentiva un rumore assordante nello stadio. Fuori di lui, il nulla, il vuoto più assoluto, non c'era luce per illuminare altra cosa e anche se ci fosse stata, non c'erano occhi che potessero guardare, e subito il sorriso della gente, la bocca cominciavano ad aprirsi, il petto soffriva, non ce la faceva più a tenere il cuore al suo posto, il fiato rimaneva sospeso. Ci ha portato a spasso con lui nella sua magia, nel suo giardino segreto, ci ha amato, ci ha offerto in dono quel che desideravamo di più, ad ognuno ha dato quello che cercava.

Un popolo perdente, addolorato, mille volte calpestato da se stesso e dagli altri ha trovato rifugio in un sorriso, in una piccola allegria calcistica, ed è stato solo lui, El Diego, ad offrirla e noi abbiamo accettato volentieri. Alcuni vorrebbero che all'estero il nome dell'Argentina venisse associato al tango, a Borges o alla Patagonia, altri di noi vorrebbero che non esistesse la parola desaparecido; tanti desideri per tante anime diverse, ma una cosa è certa, indissolubilmente l'Argentina è Maradona, piaccia o no, come per quel tassista che alcuni giorni fa in un'isola della Corea ha rotto il silenzio e chiedendomi di dove fossi, alla mia risposta ha inchiodato, si è voltato, ha sorriso e mi ha detto: "Maladona, Maladona".

 

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