Due tra i film più dolenti visti finora al Torino Film Festival, Sensô to hitori no onna (A Woman and War, il titolo inglese) di Junichi Inoue e L’image manquante di Rithy Panh traspongono in immagini due tragedie collettive che hanno segnato il Novecento, ponendo in primo piano le ripercussioni di questi eventi su dei vissuti individuali, privati. Nel primo caso la tragedia in questione è la Seconda guerra mondiale, sponda giapponese; nell’altro il focus è sull’era del regime dei Khmer Rossi in Cambogia. E’ quasi un dettaglio che nel film di Panh le vite narrate siano vite reali, mentre Inoue metta in scena vissuti finzionali: il documentario e la fiction si confermano due modi di guardare il mondo – e la storia – che semplicemente rispondono ad esigenze contigenti differenti, ma in fondo complementari e assolutamente non-escludenti.
Rithy Panh aveva nove anni nel 1975 quando i Khmer Rossi presero il potere in Cambogia, imponendo, in nome del socialismo reale, un regime di privazioni e oscurantismo. Eliminarono o confinarono i dissidenti, misero al bando i libri e fermarono il cinema, cercarono di sradicare la cultura e il sapere che erano stati fino ad allora del popolo cambogiano sostituendoli con la propaganda, nella prospettiva della formazione di uomini nuovi e puri. Rithy Panh finì in uno dei famigerati campi di rieducazione, dove lavorò in condizioni di schiavitù e vide morire gran parte della sua famiglia. L’image manquante, presentato a Torino fuori concorso e già vincitore allo scorso Cannes in Un certain regard, è il film in cui descrive la sua esperienza di internato, ed è la continuazione di un percorso di cineasta che, iniziato attraverso titoli come S-21 – La macchina di morte degli Khmer Rossi (2003), Duch, le maître des forges de l’enfer (2011), Panh sta dedicando interamente alla storia del suo paese.
Alla ricerca dell’immagine mancante dell’annientamento del suo popolo, di una immagine cioè che da sola possa metonimicamente dar conto di tanto orrore, Panh non può certo trovarla nelle immagini di repertorio ufficiali commissionate al tempo agli operatori del regime, immagini che pure indaga con passione e indole investigativa. Decide allora di fabbricarla da sé, attraverso centinaia di modellini di plastilina, con cui ricostruisce intere scene della propria memoria di confinato nel campo di lavoro. È tutto qui il suo film: bianco e nero d’archivio e animazione con pupazzi, su cui si appoggia una colonna audio fatta di un commento sofferto e poetico, da lui scritto insieme a Christophe Bataille. Così, Panh utilizza le armi della creatività e della fantasia per raccontare e trasfigurare un dramma appartenente alla storia del suo paese e alla sua vita.
Junichi Inoue, classe ‘65, non ha evidentemente vissuto il conflitto mondiale né l’immediato dopoguerra ma ha le idee chiare, le conoscenze storiche e letterarie (alla base del suo film c’è un romanzo di Ango Sakaguchi, uscito nel 1946) per fornire una visione precisa e assai consapevole del Giappone divorato dalla follia della guerra. I tre personaggi attorno a cui ruota A Woman and War – uno scrittore nichilista e sessuomane, una ex prostituta che prova piacere soltanto se violentata, un soldato tornato dal fronte privo di un braccio e stupratore seriale – sono cavie di una umanità che sperimenta su se stessa il proprio veleno più potente, la guerra. Le loro deviazioni, tutte in qualche modo legate alla sfera sessuale, sono le manifestazioni apicali – estenuate fin quasi al paradosso – di una devianza generalizzata che Inoue lucidamente storicizza e attribuisce all’intero paese intossicato dal conflitto.
Il solco poetico e ideologico in cui si inserisce A Woman and War, selezionato a Torino nel concorso principale, è quello tracciato da cineasti come Nagisa Oshima e soprattutto Koji Wakamatsu, maestro dichiarato (recentemente scomparso) dell’esordiente Inoue. La messa in scena è essenziale e brutale, disturbante nella iterazione logorante di episodi di umiliazione fisica e psicologica, perpetrati da un’umanità immortalata a uno stadio di degenerazione. Inoue non cerca scappatoie o catarsi né per i suoi personaggi, né per lo spettatore, al quale non risparmia nulla della abiezione. L’idea della trasfigurazione dell’esperienza drammatica non lo sfiora nemmeno. Ma non meno che ne L’image manquante, l’obiettivo è quello di affermare, con mezzi poetici evidentemente differenti, la necessità di ricordare anche ciò che la memoria collettiva vorrebbe rimuovere.