Dopo quindici anni di idillio, di immediata intesa e di complicità, una terza persona irrompe nella vita di Paloma ed Hector, sconvolgendola. La prima sembra inevitabilmente destinata a soccombere, come è nell’ordine naturale delle cose. Il secondo scopre emozioni e turbamenti per lui nuovi, e ora guarda il mondo con occhi diversi: è la sua prima cotta.
Club Sandwich del messicano Fernando Eimbcke, racconta infatti l’esclusivo rapporto tra una madre single e un figlio adolescente. Paloma, trentacinquenne, vive solo per Hector, che riempie di attenzioni e cerca di coccolare e viziare in tutti i modi. I due non sono soltanto madre e figlio, sono anche amici, confidenti, compagni di giochi.
Per lunghi tratti del film sono completamente da soli. In vacanza fuori stagione (perché “costa di meno”), in un semi-deserto villaggio turistico con piscina, le loro vite scorrono all’insegna di quelle che sembrano radicate abitudini: la crema da spalmare l’un l’altra, la musica in cuffia, il solito panino (il “club sandwich” del titolo) da ordinare in camera. Tra loro il dialogo è fatto di cenni di intesa e di poche parole, perché ognuno dei due sa leggere benissimo nella mente dell’altro.
L’imprevisto è però dietro l’angolo, e si manifesta quando Hector si imbatte per caso nella coetanea Jazmin, anche lei nel villaggio con l’anziano padre e la sua nuova moglie. Anche in questo caso i due, timidi e impacciati, si scambiano pochissime parole, ma trovano comunque un’affinità; la classica “tempesta ormonale” dell’adolescenza fa poi il resto e scocca la scintilla.
Paloma, a questo punto, si sente messa in disparte, scopre una nuova forma di gelosia e fa di tutto per ostacolare i due ragazzini, reclamando attenzioni e non lasciandoli mai soli. Si andrà avanti così fino alla fine della vacanza.
Eimbcke, già noto al pubblico del TFF per Lake Tahoe del 2008, mette in scena una commedia amarognola e malinconica, seppur non priva di momenti di irresistibile comicità, che si muove su due livelli. Da una parte il nuovo mondo che si apre davanti agli occhi di Hector, con la scoperta dell’amore e della sessualità e una nuova vita pronta a sbocciare e ad andare con fiducia verso il futuro. Dall’altra la dolorosa presa di coscienza di Paloma della perdita della propria centralità, e dell’inizio della fine della propria “missione”.
Ed è proprio con Paloma, destinata come si diceva a sconfitta certa, che lo spettatore è portato a solidarizzare: una donna che ancora giovane ha già vissuto molte vite, probabilmente obbligata dalle circostanze a crescere troppo in fretta e ora costretta a reinventarsi ancora, a cercare un altro ruolo per se stessa nel mondo e nella vita di suo figlio. Suscita quindi empatia il suo tentativo di aggrapparsi alla sua unica certezza, nonostante l’invadenza, l’ostinazione e gli atteggiamenti antipatici – o forse proprio a causa di tutto questo.
Al regista va il merito di aver raccontato genuinamente e senza cliché due delicate fasi della vita, quella della pubertà e dei primi amori e quella della crisi che una volta si definiva “di mezza età”. Oggi, per motivi anagrafici e sociali, si parla invece di “giovani adulti”, che proprio come gli adolescenti navigano a vista e hanno mille incognite sul futuro. In attesa di un nuovo scopo nella vita, e del momento del riscatto, Paloma resta quindi a letto davanti alla tv. Hector, intanto, sgattaiola fuori dalla stanza e vive il suo tempo delle mele.