“Patrice Chereau è un regista esigente, e anche un po’ isterico sul set. In questo assomiglia a Bertolucci, è sempre convinto che le sue riprese siano l’evento più importante del mondo”.
Con queste parole Jean Louis Trintignant, un interprete che conosce bene il cinema d’autore europeo avendolo attraversato per quarant’anni, ricorda nella sua autobiografia Patrice Chereau, che se n’è andato un po’ in sordina lo scorso sette ottobre, suscitando in chi scrive un turbamento, un piccolo brivido sotterraneo probabilmente collegato al vortice di emozioni e di pensieri in cui sono caduto ogni volta che mi è capito di imbattermi nei suoi film, da quelli più celebrati transitati per i festival del cinema a opere più piccole e forse più preziose, alcune inedite nei circuiti cinematografici nostrani sempre persi dietro i calcoli maniacali di introiti e perdite e incapaci di accogliere un cinema a contatto con la natura insondabile e segreta dell’interiorità delle persone bergmanianamente intese.
Il film a cui si riferisce l’affermazione di Trintignant è uno di quelli di Chereau che non abbiamo potuto vedere nei nostri cinema, nonostante qualsiasi distributore lungimirante, solo partendo dal titolo, Ceux qui m’aiment prendront le train (Chi mi ama prenderà il treno), avrebbe potuto acquistarlo, immaginando la ricchezza di possibilità narrative dietro ad una frase che sembra riassumere l’esperienza di tutta una vita di relazione.
Nello stesso brano dell’autobiografia Trintignant ci offre anche un’altra informazione: quel titolo viene da una frase che il regista Francois Reichenbach aveva pronunciato prima di morire, chiedendo di essere sepolto nella città dov’era nato, Limoges, e di fronte all’obiezione della sceneggiatrice Danielle Thompson sul fatto che tutti i suoi amici erano di Parigi e probabilmente non sarebbero venuti in una cittadina di provincia, lui rispose appunto “Chi mi ama prenderà il treno”.
Già l’aneddoto di come è nata l’idea di questo film, anche senza aver avuto la possibilità di vederlo, racconta molto del cinema di Chereau, lasciandoci comprendere come, con una brusca franchezza tradotta in un stile cinematografico non sedotto da compiacimenti e virtuosismi, questo cineasta dal tocco così unico si sia lasciato sedurre dalle derive e dagli sbandamenti della vita. Quello che sappiamo della trama è che intorno ad un evento luttuoso, la morte di un pittore poco conosciuto, ruotano le esistenze problematiche degli amici che scelgono di prendere quel treno, di fare quel viaggio. Un luogo come momento in cui lo spazio e il tempo rimangono sospesi e il cinema si riappropria di tutta la sua valenza simbolica pur rimanendo profondamente radicato a terra in una dimensione che sentiamo nostra, nel loculo della quotidianità e contemporaneamente nel vuoto dell’assoluto, perché in fondo è questa distanza che Chereau ha cercato di filmare e in qualche modo di colmare
.“Cadono a terra, invece di tuonare, ma quale imponente e gioiosa caduta” scriveva un critico di Neon Bibble, secondo album degli Arcade Fire, rock band canadese la cui musica mi ha portato spesso in quello stesso turbamento e sfuggente brivido del cinema di Chereau. Ricordo che la sensazione che ho provato dopo aver visto un altro suo film che da noi non ha trovato uno spazio, Persecution, nonostante il titolo apparentemente più a effetto e riconducibile anche dallo spettatore ignavo a un’iconografia concettuale di cattolica reminiscenza, è stata proprio quella di cadere a terra con imponenza, ma senza la gioiosità citata nel commento sugli Arcade Fire. Bensì con addosso, sulla pelle, uno scorticamento doloroso, un trovarsi fragili e sperduti in un punto della relazione che spinge in una direzione (l’incontro) o in un’altra (la separazione), dove è escluso il compromesso, perché il compromesso nell’intimità filmata apertamente e non spiata voyeristicamente dall’occhio di Chereau è percepito come il lento spegnersi dei sensi, la morte della vita interiore, quella percezione limitata, stanca di cui parlava uno dei personaggi di Scene da un matrimonio, gettando in un memorabile close up di panico e sconcerto il volto-paesaggio di Liv Ullman.
Non so se sono in grado di raccontare la trama di Persecution, anche perché non si può parlare di trama nel senso di intreccio o fatti concatenati tra di loro. Vengono filmati situazioni, stati emotivi, i moti e i falsi movimenti nello spirito più libero e autentico del cinema francese post nouvelle vague, ma c’è qualcosa di diverso e di pù: il modo in cui la mdp interagisce con Romain Duris, attore dal volto intenso e dalla fisicità nervosa, zona franca e piratesca dove convivono in corto circuito il maschile e il femminile, e il suo aderire al personaggio di un restauratore di case che vive i non luoghi -ancora questo concetto, leit motiv della stagione cinematografica in corso- degli appartamenti in cui lavora e abita come un vagare senza meta, guidato dal proprio senso di incompletezza, è un dialogo così personale e rivelatore da non poter essere uguale e confrontabile con nient’altro. Si tratta del contatto con la verità unica e irreperibile di quel personaggio/attore in quel momento, mentre sta compiendo un gesto così preciso e reale da avere tutta la potenza e la risonanza dell’assoluto. Le immagini sono assorbite da un buio feroce e viscerale e in questo clima di sottile tensione entra la polarità del personaggio femminile, incarnato, e non potrebbe che essere altrimenti, da Charlotte Gainsbourg, il cui volto irregolare e sgraziato e il cui corpo imponente, quasi da amazzone dominatrice, su cui è costruita la maschera di una staticità emotiva, fanno oscillare continuamente la pellicola concepita nel senso fisico materiale del termine – e forse non si potrebbe immaginare il cinema di Chereau in digitale – come un organismo magmatico dove sono aggrovigliati rabbia, desiderio, frustrazione. Qual è la persecuzione a cui si riferisce il titolo? Gli assalti che un deperito e invecchiato Jean Hughes Anglade nel ruolo di un clochard disadatto compie ai danni di Duris inseguendolo nel suo transitare per appartamenti in disfacimento? In realtà, ci dice Chereau, quell’attaccarsi incontenibile è il movimento travolgente della vita e lo scarto sta nell’accettarlo come possibilità e non come persecuzione.
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“Non mi ero resoconto di aver fatto qualcosa per te” così dice Anglade a Duris, ed una battuta simile la pronunciava un personaggio secondario di Intimacy-Nell’intimità, altro titolo esplicito e diretto sulle implicazioni nei rapporti tra corpo e cuore, rivolto al protagonista maschile: “è bellissimo che lei faccia tanto per te senza chiederti niente”
Ancora una volta il darsi fino all’ultimo respiro dei corpi di due sconosciuti senza nome e senza storia, un altrove dal tempo e dallo spazio dove questa volta è la donna ad entrare per prima, l’archetipo di una femminilità vibrante, che sconvolge gli equilibri e rode sotto la forma convenzioni e regole, capovolgendone la prospettiva.
Quell’intesa di corpi cosi profonda, caricata di un’identità universale, si sfalderà e esaurirà in una necessità di controllo, probabilmente anche espressione di un potere del maschiomaschile che va “a caccia”, nel suo bisogno di marcare il territorio, di definire i ruoli: Amante, marito, famiglia, figli.
Il lerciume e la muffa delle convenzioni sociali contro la purezza e l’ascetismo del sentimento, dove la nudità non diventa tanto espressione dell’eros quanto uno stato di regressione in cui si chiede accudimento e tenerezza. I fratelli di Son Frère possono amarsi, pur nel fondo di disperazione della malattia di uno dei due, oltre la respingente distanza, il buco nero di isolamento e rifiuto in cui conduce la pesantezza del legame, del vincolo che sia di sangue o di altra natura. Sotto la scorza dura, c’è struggimento, comprensione, richiesta d’aiuto, come raramente si è visto in una storia tra fratelli, dove si preferisce l’accesso più facile del conflitto spesso non irreversibile dentro i rassicuranti argini del contesto familiare.
È come osservare qualcuno sepolto sotto terra che scava disperatamente per tornare in superfice, alla ricerca della luce del sole. Chereau si è concentrato sul particolare delle unghie sporche di fango, ma attraverso tutto quello scavare, logorarsi e tormentarsi ha espresso nella maniera più concreta e al tempo stesso più impalpabile il naturale bisogno di calore e tenerezza degli esseri umani. Ed è per questo che dopo il disagio e lo smarrimento, alla fine di ogni suo film ho provato riconoscenza e gratitudine, una sensazione di cui da ora in poi sentirò la mancanza, come del cinema fatto di carne e celluloide.