L’applauso spontaneo che la sala riserva all’opera di Lubitsch To be or not to be, momento che pare ripetersi a ogni proiezione durante i titoli di coda, non ha il sapore del tributo deferente a un grande maestro di cinema e neanche quello di circostanza che caratterizza le visioni festivaliere. Si applaude alla bellezza. A qualcosa di molto prossimo alla perfezione. Il potere che ancora esercitano certi capolavori di stile, di sapienza, di mestiere li rende eterni. La loro forza ha la capacità di ridurre lo spettatore a una meravigliosa condizione di ingenuità per porgli in dono ciò che ormai, immerso a pieno nella civiltà delle immagini, sembra non possedere più, ovvero quella verginità di sguardo e quella disposizione d’animo tale da indurlo a rimuovere ogni malizia e negargli ogni strumento di indagine sul dispositivo.
Forza, bellezza, grazia. E’ il Classico.
Via ogni interferenza tra oggetto filmico e regime scopico, ciò che desideriamo di più è credere a ciò che vediamo, emozionarci, meravigliarci. E se la materia che abbiamo davanti è un’orchestra perfetta di tempi, situazioni, trovate, elementi legati insieme dalla bellezza di uno stile raffinato e dall’intelligenza sottile delle dinamiche in campo, non possiamo che aderire sentitamente all’applauso della sala e sperare che l’operazione della Teodora, che ha restaurato magnificamente la pellicola, sia un incoraggiamento a riproporre in sala quegli autori che hanno fondato la grammatica del cinema. Non a caso quella della Teodora si è rivelata un’intuizione felice anche sul piano commerciale, visto che nelle città dove la pellicola è stata distribuita la media degli spettatori è stata molto alta, a riprova che “la (vera) grande bellezza…” ha il dono dell’eternità e non può vivere solo nelle nicchie dei cineclub.
Come altri registi tedeschi, tra i quali Lang e Murnau, Lubitsch consacrò il proprio stile negli Stati Uniti negli anni venti del Novecento. La sua propensione verso la commedia sofisticata trovò il proprio vertice espressivo a Hollywood, patria dei sogni in celluloide, dove i generi cinematografici si andavano definendo attraverso regole drammaturgiche e visive precise. Se Fritz Lang, innestò la sua personale inclinazione visionaria e allucinata dentro strutture narrative solide che ne fecero il più grande regista di film noir degli anni d’oro del cinema classico americano, grazie a film come Furia, La donna del ritratto, La strada scarlatta e molti altri, Lubitsch trovò nel sistema produttivo americano il suo habitat naturale perfetto. La sontuosità delle scenografie, l’attenzione ai particolari, il tocco leggero delle sue commedie si perfezionarono sempre più grazie alla naturale tensione verso l’intrattenimento e lo spettacolo propri dell’industria hollywoodiana. Girò numerose commedie che influenzarono i migliori registi, come Billy Wilder, Otto Preminger definendo una poetica che diventerà pilastro della commedia sofisticata americana. Il gusto della satira e dello sberleffo, che trovava nei membri della upper class americana i suoi bersagli prediletti, caratterizzarono le migliori commedie come Mancia competente e Partita a quattro, dove compare uno dei suoi temi privilegiati, il menage a troi.
Tradimenti, equivoci, situazioni paradossali sono gli elementi che innescano l’azione il cui motore è la parola, che ineffabile, scolpisce il profilo psicologico dei suoi personaggi. I dialoghi repentini, ritmati, seguono il movimento vorticoso dei protagonisti, a rendere il senso di precaria stabilità in cui vivono, tutto dentro una cornice visiva di altissima eleganza.
Con To be or not to be Lubitsch mantiene tutto il suo impianto, ma inserisce un elemento di accentuata drammaticità. Parodia sul nazismo, girato nel 1942, distribuito in italiano con il titolo Vogliamo vivere, racconta il tentativo di fuga di una compagnia teatrale polacca all’indomani dell’occupazione di Varsavia da parte delle truppe tedesche. Gli elementi rimangono gli stessi, tradimenti (politici e sentimentali), satira, “situazione”. Ma l’esercizio si fa più arduo perchè la leggerezza di una commedia non sarebbe proprio il tono adeguato a rappresentare la tragedia storica del nazismo. Lubitsch, proprio servendosi delle proprie armi, sbeffeggia gli uomini del terzo Reich mettendo a nudo la loro stoltezza più che la loro ferocia criminale. Ma va oltre rappresentando il complesso rapporto tra arte e vita, realtà e rappresentazione. Un film di così acuta intelligenza e straordinaria sapienza, restaurato adeguatamente, ci fa scoprire qualcosa di originario nel rapporto con l’immagine e la scrittura cinematografica, un rapporto che appare oggi sempre più contaminato dai molteplici stimoli visivi ai quali siamo sottoposti quotidianamente.
La critica considerò Lubitsch un purista del cinema. Un regista che utilizzava tutte le specifiche potenzialità del mezzo cinematografico per raggiungere esiti artistici elevatissimi. Forse ci voleva un suo film, uscito sessanta anni fa, per partecipare finalmente felici all’applauso convinto della sala, che accompagna sistematicamente i titoli di coda al termine di ogni proiezione.