L’attrice che ha attraverso con maggiore intensità e presenza l’appendice di questa stagione cinematografica nostrana a dire il vero non particolarmente esaltante ed elettrizzante, è sicuramente una delle presenze più singolari e sfuggenti nel parterre delle giovani interpreti che fanno fatica a trovare parti interessanti nell’anemico cinema italiano, mai particolarmente generoso a scrivere per le donne, e che spesso emigrano nella confinante Francia, dove l’attenzione allo scavo psicologico e allo scandaglio delle emozioni e dei sentimenti ha la sua espressione più sublime sui volti e sui corpi delle femmes, che siano fatali oppure della porta accanto.
Anche Jasmine Trinca, corpo e volto coltivato sotto l’egidia di un personaggio fagocitante e assoluto come Nanni Moretti che ne ha fatto un po’ la sua Antoine Doinel (da sofferta e vitale adolescente ne La stanza del figlio a giovane donna da passioni civili e cinematografiche ne Il caimano), si è fatta tentare dal cinema francese, pur rimanendo praticamente inedita al pubblico italiano la sua apparizione nel celebrato L’Apollonide-Souvenirs de la maison close di Bertrand Borrello, dove compie la definitiva evoluzioneemancipazione dall’ingombrante padre cinematografico con il ruolo “contro” di una prostituta di un bordello parigino di fine ottocento.
Ma anche questa apertura alla possibilità di una carriera francese rimane episodio isolato e non strutturato come le carriere di altre più mature e celebrate colleghe, in primis Valeria Bruni Tedeschi e Valeria Golino: loro, come Jasmine, dotate di una predisposizione per quel cinema scorticante, complesso, doloroso, zona d’ombra da esplorare, per quei registi che sono quasi sempre uomini, attraverso dei fiammeggianti, carnali alter ego di sesso femminile, e non delle distaccate e ieratiche muse.
La caratteristica di questa poco più che trentenne attrice romana sta proprio nella riluttanza con cui offre le sue apparizioni: pochi titoli scelti e spesso ritorni di fiamma con gli stessi registi (due volte Moretti e due volte Placido, che l’ha resa soggetto amoroso di salvezza e rimpianto in Romanzo criminale e ne Il grande sogno). E poi quell’aria che la rende cosi vicina, contemporanea, familiare, una ragazza che potrebbe capitarci di incontrare osservando la gente che prende la metropolitana per andare al lavoro o all’università la mattina, e insieme un conturbante senso di distanza, di indefinibilità, di spazio vuoto, come se lei stesse sempre dicendo che esiste un qui e un’ora, ma anche un altrove sotto la patina della realtà o scavando Sotto la sabbia, per citare il titolo di un bel film di Francois Ozon, con protagonista una madre nobile di questo modo di essere attrice, Charlotte Rampling.
Osservata sotto questa lente d’ingrandimento, solo lei poteva intraprendere il viaggio astratto, interiore e al tempo stesso fisico, tattile, sensuale dell’Augusta di Un giorno devi andare, film forse non risolto tra aspirazioni liriche e preoccupazioni didascaliche, ma attraversato da un’autentica tensione esistenziale: così il pedinamento della macchina da presa di Giorgio Diritti sul corpo e sul volto della sua attrice in relazione con uno spazio aperto e immenso, simbolico e reale come il Brasile (il fiume, la foresta, le favelas) conduce direttamente alla forma essenziale di un gesto, un movimento, uno sguardo o un’espressione e ne svela la natura profondamente umana e assoluta.
La parte più emozionante e potente del film è proprio questo documentario sulla relazione tra individualità e senso di appartenenza, per tramite la figura di Jasmine Trinca, che proprio muovendosi dentro e fuori un’idea convenzionale di attrice e di carriera, offre la suggestione di portare qualcosa di personale in Augusta, quella vibrazione misteriosa che fa parte del moto continuo, della spinta irrequieta alla ricerca del proprio posto nel mondo, magari senza la consolazione di una destinazione, un limite forse appartenente al personaggio, sul filo irritante di simbolismi e metafore, una trappola da cui a volte è proprio la spontaneità e la verità dell’attrice a preservarci.
La naturalezza e la spontaneità con cui Jasmine entra e si cala nel dolore anche più insopportabile e devastante si arricchiscono però, nel film in cui è passata successivamente, di un tocco di grazia e di leggerezza in più, a cui non è estraneo lo sguardo che la osserva da vicino e ne contatta e rivela, per empatia ed affetto, l’imperscrutabile intensità.
Il fatto che Valeria Golino, che proprio prima citavamo a lei affine, sulla stessa linea di luce e di ombra, abbia scelto la Trinca come protagonista di Miele, il suo esordio da regista, appare così come l’incontro ricercato e prezioso di una capacità di guardare e di vivere sulla pelle un argomento che mette in discussione ancora una volta l’identità personale in rapporto al sistema valoriale di una società che codifica, regolamenta e condiziona. Lo sguardo di Valeria e il dolente corpo d’attore di Jasmine si muovono sul filo del rasoio di un tema troppo spesso ridotto a discussione di posizioni ideologiche o morali, o ancor peggio a dibattito salottiero dove tutto è ulteriormente riportato ai minimi termini di una dichiarazione di voto, pro o contro. L’eutanasia o, meglio, la libertà di scegliere il modo in cui morire è invece il tema della vita proprio perchè ne illumina il senso a ritroso. La dimensione in cui si muovono Valeria autrice e Jasmine interprete non è interessata ad alimentare ulteriormente il chiacchiericcio e neanche a proporre altisonanti riflessioni filosofiche.
Raccontando la storia o, più precisamente, costruendo l’identità di IreneMiele, una ragazza che aiuta malati terminali ad avere l’ultima dolce, confortante parola sulla versione della propria morte, queste due donne sono concetrate assolutamente e intensamente, due aggettivi che a fatica possono associarsi alla cinematografia italiana, sull’apparato umano, citando il titolo del remoto e celebrato romanzo del Jep Gambardella de La Grande Bellezza, abitante ormai di un mondo decadente e mortifero che va in una direzione, anche cinematografica, contraria e non ostinata alla brusca energia, alla toccante compassione e alle pulsioni vitali che vibrano nella regia della Golino e nella performance della Trinca.
Così quando entra in scena il signor Grimaldi, ingegnere di raffinato spessore intellettuale che non ha l’alibi della malattia terminale, ma semplice
mente la stanchezza e il peso della vita, l’”apparato umano” entra in crisi: i gesti, le parole, la ritualità con cui MieleIrene vestiva il suo ruolo di compassionevole angelo della morte portando all’apoteosi quella particolare qualità di essere presente e distante, al centro dell’azione e contemporaneamente al margine dell’inquadratura, perdono il loro valore di rassicurante schema logico per dare un contenitore alla più radicale e irrevocabile delle decisioni.
Il signor Grimaldi potrebbe essere una versione più lucida, consapevole ed etica del Gambardella sentimentale e consolatorio di SorrentinoServillo, pure interpretato da un grande attore della scuola partenopea come Carlo Cecchi, ma meno celebrato e immolato del Toni nazionale, e proprio per questo capace di dare vita a un personaggio che dice la verità e non ne ha paura. Nel ribaltamento della prospettiva che passa anche attraverso l’ironia e la dissacrazione – il signor Grimaldi fa notare a Irene come il farmaco da ingerire per provocare la morte sia contenuto in una scatola con sopra raffigurata l’immagine di un cane (si tratta infatti di un potente veleno per animali) Jasmine e Valeria aprono al cambiamento, alla trasformazione, all’attraversamento della linea d’ombra. L’incipit in cui tutto si svolge dietro a un vetro opaco in cui si percepisce il tono pacato e risoluto di Irene, la porta che si apre e lei che viene incontro alla mdp, accolta nella delicatezza e nel pudore del momento da un brano di musica classica per poi precipitarsi a perdifiato in una corsa in bicicletta, nel ritmo sincopato e potente del rock contemporaneo, e ancora abbandonarsi al movimento e al suono dell’oceano, un momento di sospensione che preannuncia la scena più forte, nuda e sconcertante: l’incontro con un giovane malato di SLA e con la madre combattuta tra premura e disperazione, l’espressione più estrema di quanto si possa amare e reclamare la vita attraverso la morte.
Ma com’è nella sua peculiarità di attrice dotata anche di una travolgente solarità, Valeria Golino offre alla fine una pennellata di colore, un fremito di leggerezza, un’espressione distesa sul volto ingrugnato della sua Irene, forse una possibilità non contemplata dalla stessa Trinca: il disegno di un autoritratto inconsueto, un ibrido grottesco tra un uomo in giacca e cravatta e un cane che vola libero sopra le teste dei turisti in contemplazione della cupola della basilica di Santa Sofia a Istanbul.
Un’immagine che accosta sacro e profano, oppure semplicemente introduce nella bellezza trascendentale della luce della cupola, la bellezza più intima e segreta di un sorriso d’affetto e tenerezza.
È vero, c’è la sensazione di un che di irrisolto nel film di Diritti, e forse proprio le cose che sembrano apparire come “aspirazioni liriche”.
Un certo didascalismo, o la scarnezza del tratto narrativo, invece, li vedo come la sua particolare cifra. A me piace proprio per questo, mi piace l’entrare in modo semplice e immediato nel mondo reale e l’essenzialità del gesto, la pietà, o la durezza dello sguardo, la spontaneità ingenua sono effettivamente azioni cariche di umanità.