Agli occhi dello spettatore esordiente, il festival di Berlino appare un fiume in piena. Dai suoi argini debordano il cinema, con i suoi oltre trecento titoli in programmazione, i milioni di euro del film market più fiorente d’Europa dopo Cannes e la massa di spettatori che non solo affollano le sale ma ingrossano, anche, le file chilometriche delle biglietterie dislocate nella città e i capannelli ai margini del red carpet innevato. La vitalità e la potenza della Berlinale, certificate da un trend positivo costante negli ultimi anni, non si possono non leggere in rapporto alla collocazione della Germania nell’attuale scenario internazionale, che la vuole leader, forza propulsiva o forse piuttosto vampiro dell’economia europea. Volendo forzare la lettura «politicizzante», l’impatto sul novizio è prepotente e implica in effetti anche una certa dose di esclusione e di sudditanza che la macchina-Berlinale – perfetta, mastodontica, «chiusa» – sembra orgogliosa di esercitare.

Tant’è che senza un accredito o senza una disponibilità economica elevata, si è costretti a navigare in cerca di fortuna lontano dal concorso principale. Questo browsing tra le sezione collaterali (Panorama, dedicata al cinema indipendente; Forum, riservata ai film sperimentali; Generation e Generation 14plus, per i ragazzi; Perspektive Deutsches Kino, focus sulle tendenze in atto nel cinema tedesco; Berlinale shorts; le retrospettive) costituisce una piacevole incognita, che può condurre ad approdi sorprendenti, come nel caso di Elelwani, primo film ambientato e girato all’interno della residuale comunità Venda, nel nord del Sudafrica. Si tratta del secondo lungometraggio di Ntshaveni Wa Luruli, che già con il primo, The Wooden Camera, si era fatto notare qui a Berlino nel 2004, vincendo l’Orso di cristallo di Generation 14 plus. Elelwani è il nome di una giovane donna che ha appena terminato gli studi ed è pronta a sposare Vele, l’uomo che ama, ma si scontra con i suoi genitori, che hanno un progetto diverso: le comunicano che, in ossequio a un obbligo di riconoscenza, andrà in sposa al re della tribù, che lo voglia o meno. Da qui ha inizio per la ragazza un viaggio materiale verso lo sposo imposto, che è anche un viaggio all’interno della propria cultura, che avrà esiti sorprendenti.

Un primo, dichiarato obiettivo di Ntshaveni Wa Luruli, che in sede di sceneggiatura ha adattato e aggiornato al dopo-apartheid il romanzo omonimo scritto da Titus Ntsiene Maumela negli anni Cinquanta, è quello di portare l’attenzione sulla cultura Venda, pressoché sconosciuta anche in Africa e ormai in via di sparizione, e di farlo in maniera «adulta», senza esotismi né semplificazioni di comodo. Infatti, se nella parte iniziale del film si può avere l’impressione di una giustapposizione troppo netta tra gli usi e costumi tribali – maschilisti, retrogradi, sordi al cambiamento – e l’apertura illuminata dei giovani «scolarizzati» Elelwani e Vele, in realtà si comprende presto come il racconto viaggi nella direzione della complessità, mostrando poco a poco la ricchezza, e con essa le aporie, della tradizione Venda. La fierezza e l’orgoglio di genere rivendicati dalla ragazza, evidente portato della sua «secolarizzazione», incontrano nell’universo Venda un altro senso della dignità femminile, non meno profondo, che si accampa nelle profezie e nei sogni per trascendere la sudditanza di una ritualità domestica in cui alla donna non è concesso guardare l’uomo negli occhi.

Che poi, questo lavoro di apprendimento e recupero del proprio passato rispecchia il cursus biografico dello stesso Luruli, il quale, di nascita Venda, ha lasciato il Sudafrica da ragazzo per studiare cinema negli Stati Uniti (dove è stato anche collaboratore di Spike Lee), ritornandovi poi in età matura.

Questa stratificazione personale ha probabilmente spinto l’autore a imbastire un’opera che dal punto di vista stilistico vive di un triplice livello. Il punto di partenza è infatti realistico, nutrendosi della vicenda drammatica di una giovane donna oppressa nella sua volontà dall’imposizione genitoriale. Quando però il racconto pone Elelwani a confronto diretto con gli usi e le tradizioni dei Venda, ecco che nella messa in scena si impone un procedimento di straniamento, che in qualche modo interpreta e visualizza la condizione della protagonista e quella dello spettatore. I membri della tribù, chiaramente non-attori, esprimono e impongono la lettera della tradizione, parlando direttamente in camera, immobili, senza alcuna apparente finzionalizzazione. L’interlocutore del loro discorso, che sia la protagonista o lo spettatore, sostanzialmente svanisce, perso irrimediabilmente in una alterità totale.

Infine, quando il viaggio della ragazza incrocia la natura mitica di una cultura che ha il suo nutrimento nel racconto, nelle leggende tramandate oralmente, nei segreti e negli inganni, ecco che le immagini acquisiscono una sostanza onirica, in accordo con un sistema culturale per il quale non esiste soluzione di continuità tra realtà e sogni: i secondi custodiscono il significato più profondo della vita umana, ne orientano l’agire.

Ci sono voluti dieci anni a Ntshaveni Wa Curuli per portare a compimento il suo progetto, avversato dalle difficoltà finanziarie, dai problemi ambientali del girare nel mezzo della foresta sudafricana, forse dallo stesso mistero che avvolge una cultura-fantasma, prossima, pare, all’estinzione. Il che rende ancora più prezioso un film come Elelwani, raro esempio – soprattutto per questi anni – di documento etnografico reso cinema.

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