Dopo l’acclamato Kids, anno domini 1995, Larry Clark ha praticamente ritratto il lato oscuro e deprimente di ogni nuova classe di adolescenti che da lì in poi si è affacciata sulla soglia del gradino più basso di un certo modo di subire la sessualità o l’abbruttimento relazionale.
Se a Venezia abbiamo avuto modo di discutere e dividerci sugli sviluppi patinati, contraddittori e pirotecnici del suo discepolo Harmony Korine, qui a Roma, con Marfa Girl, il regista di Ken Park arretra all’essenziale il fulcro del suo cinema, cannibalizzando se stesso in una versione regressiva e arsa nel vuoto del deserto texano. Proprio nella terra dove in passato fuorono girati Il gigante, Non è un paese per vecchi e Il petroliere, Clark forse non ha realizzato la sua opera migliore, ma comunque ha ambientato una storia che gli è valsa il Marc’ Aurelio d’oro qui al Festival di Muller.
Non sapremo mai se il regista statunitense si vanterà con i suoi amici di questo premio, la riuscita del suo ultimo film comunque è stata un utile termine di paragone per orientarsi nel quadro sconfortante degli altri film in concorso.
Se partiamo dalla considerazione che ogni generazione vive la propria educazione sentimentale alle droghe, al sesso o alle varianti del rock ‘n roll in maniera più o meno vittoriosa ed esaltante non possiamo non ammettere che con Marfa Girl Larry Clark abbia colto in maniera intensa e con un senso cinematografico compiuto l’aridità, la naturalezza e le contraddizioni con cui molti adolescenti oltrepassano per sempre la linea della loro maturazione.
Ambientando nei confini desolati del Texas l’intreccio amoroso e scostante di un giovane skaters con alcune sue coetanee e con qualche amica più grande decisamente più disinvolta, l’ex fotografo di Tulsa coglie perfettamente il livello di trasformazione di quella che una volta poteva chiamarsi liberazione sessuale, ma che ora è regredita a un annusamento seriale vuoto e casuale.
I tratti del personaggio della pittrice alternativa che cerca di dare una pretesa intellettuale al suo atteggiamento aperto nei confronti di una moltitudine impenetrabile di partner – in questo senso – spiega molto su come Clark volesse radiografare la pochezza culturale su cui si muovono i suoi ragazzi.
La stessa scena iniziale del rapporto ambiguo e stropicciante del protagonista con la sua insegnante conferma perfettamente come il regista volesse impostare la rappresentazione di una relazione sterile dei giovani con i propri modelli di riferimento. Filmando al contrario la pulsione disordinata, ma estrosa con cui poi gli studenti si chiudono nelle cantine per dipingere o suonare come novelli At the drive-in, Clark rende al meglio l’emergere autodidatta, confuso, ma prolifico di certe passioni .
Pur spingendosi sempre oltre nelle numerose scene di sesso che costellano la storia, a nostro modo di vedere il film riesce a mantenere un proprio livello di sensualità particolare e intenso riuscendo anche a sconfinare in altre tematiche forti ed interessanti. La costruzione del personaggio del poliziotto, tratto come il bianco razzista esaltato e forse anche pedofilo, è sicuramente forzata e stridente, ma ciò non toglie che Clark riesca a colgliere come certe dinamiche dell’emigrazione siano ormai incredibilmente veloci e incontrollabili per esser solo minimamente intercettate dalle maglie dell’intolleranza.
Marfa Girl è decisamente lontano dalla classe con cui riescono a gestire le storie adolescenziali Gus van Sant o Mia Hansen Love, ma ha sicuramente una struttura compiuta che riesce anche a innestare persino un confronto che non scade nel ridicolo con alcune pratiche new age che in un altro contesto potevano risultare persino fastidiose.
Per il resto esplora territori e sviluppa molti più significati di quelle che le critiche più feroci non hanno nemmeno voluto provare ad analizzare, prima fra tutte quella di una visione vagamente postmodernista sulla specificità dell’esperienza corporea e della collocazione come impulso per la formazione delle prospettive individuali.