“Se ci fossimo fermati qualche altro giorno gli Indios avrebbero estratto delle sostanze medicinali da quelle cortecce, mentre la gente di San Paolo passeggia velocemente per il parco Trianon per accorciare le distanze tra un punto all’altro della città”.
Con queste parole Marco Bechis, cineasta italo-cileno spinto da una curiosità che l’ha portato a confrontarsi con una realtà altra e preziosa come quella degli Indios Guarani-Kaiowà dell’America Latina, introduce il discorso su Tekoha, corto inserito all’interno del film collettivo Mundo invisivel-Mondo invisibile, in cui una serie di registi provenienti da tutto il mondo si sono interrogati sul concetto di invisibilità nel mondo contemporaneo, con un serie di cortometraggi concepiti e sviluppati da ogni autore in maniera assolutamente libera sia dal punto di vista contenutistico che da quello stilistico ed espressivo, ma tutti girati e ambientati a San Paolo in Brasile.
Della sua partecipazione a questo progetto, ma anche del suo rapporto con gli Indios e con il Brasile, Bechis ha parlato con i giornalisti durante un incontro allo spazio del Lazio Film Fund all’interno della VII edizione del Festival Internazionale del film di Roma dove Mundo invisivel-Mondo invisibile è stato presentato nella sezione Cinemaxxi.
Come nasce la sua partecipazione a questo progetto?
Nel 2008, mentre mi trovavo in Brasile per girare La terra degli uomini rossi con gli Indios, ho ricevuto un invito da Leon Cakoff e Renata De Almeida per fare un corto a tema libero sulla questione dell’invisibilità.
Il parco Trianon mi ricordava molte cose della mia infanzia perche ho vissuto a San Paolo quando avevo sei-sette anni e andavo ad una scuola proprio davanti a quel parco, e quando ho scoperto che si trattava di un parco non piantato dall’uomo ma originario, mi è scattata l’idea di raccontare qualcosa con i miei protagonisti indiani. Poi, nel corso degli anni, sono arrivati altri finanziamenti che hanno permesso agli altri autori di realizzare i loro cortometraggi e siamo rimasti in contatto, aggiornandoci via mail, finche quest’anno non abbiamo chiuso tutti i girati e messo insieme il film.
Può parlarci di come è stato lavorare con gli Indios?
La mia esperienza con gli Indios è stata estremamente forte, pur non avendo io nessun istinto protezionista nei loro confronti. Anzi, se io ho fatto il film è grazie a loro, sono loro che mi hanno convinto a farlo, loro hanno una forza enorme che noi non abbiamo più… noi possiamo avere i mezzi e le risorse ma non quella forza.
La loro forza risiede nella convinzione e nella consapevolezza di qual è il loro rapporto con questa terra: proprio ne La terra degli uomini rossi c’è una scena, ad esempio, in cui un indigeno mangia la terra. Ecco questo indica una consapevolezza che è ecologica, antropologica, spirituale,lasciando stare se si crede o meno nelle superstizioni indigene, perche quella loro posizione porta lo sviluppo in un’altra direzione, o meglio arresta un certo tipo di sviluppo e ne propone un altro.
Il conflitto tra gli indiani che vogliono portare avanti la loro cultura e i fazenderos che irrorano i campi di soia transgenica non è così facile da risolvere… Mi ricordo di un vecchio sciamano, che non ricordava quanti anni aveva, che teneva nascosti in una sacca dei mais secchi che non avrebbe piantano per scelta perchè, pur non leggendo i giornali o navigando su internet, pensava che le coltivazioni nelle terre vicine, avrebbero contaminato i suo germogli originari. Si riferiva alle piantagioni transgeniche, come a indicare che, intuitivamente, aveva capito che c’era una minaccia per la purezza delle sue coltivazioni. Se scompare quel sapere, se perdiamo quella saggezza scompariamo anche noi, restiamo solo capaci di schiacciare il pulsante di una macchina e berci un caffè.
Come vedono gli Indios gli altri brasiliani?
Li vedono come degli inferiori. Non pensano a quanto sono ricchi, alla loro cultura, non gli interessa. E poi gli indios si accontentano di quello che hanno, nel senso che possono anche sottomettersi a fare gli schiavi perche non hanno soldi ma rimangono visceralmente legati alla loro cultura e questo mi ha colpito: dopo 500 anni durante i quali hanno subito ogni tipo di vessazione e tortura, e la loro terra è stata completamente devastata e distrutta, resa al suolo, vogliono tornare ad abitarla, per un motivo ovviamente diverso dall’opportunità, in quanto potrebbero scegliere una terra più florida e più ricca. La ragione autentica è che quella è la loro terra,con cui hanno un legame profondamente spirituale ed ancestrale. Ecco, questa è una realtà invisibile. Quando sono andato a girare il film, i componenti della troupe brasiliana non erano mai stati lì e non sapevano nulla dei suicidi degli Indios Guaranì, ed è stata la mia curiosità di italiano che li ha portati in quel luogo e a scoprire quella realtà.
Anche quando l’attore Indio nel cortometraggio, di fronte alla domanda insistente da parte degli abitanti della città se siano o meno degli “Indios” risponde “No”, indica il fatto che non hanno neanche la voglia di spiegarlo, e la scelta della battuta e dell’intonazione cosi ferma e risoluta con cui l’interprete indio la pronuncia non è stata suggerita da me, ma è stato lui a trovarla e a sceglierla.
Questo criterio l’ho seguito anche durante la realizzazione de La terra degli uomini rossi: mettevo gli attori indios nella condizione di dover trovare loro la risposta, all’opposto di film come ad esempio Mission, dove c’è Robert De Niro in primo piano e gli indiani sullo sfondo
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Qual è la sua idea di cinema politico?
Cosa vuol dire fare un film politico? Non si tratta certo del soggetto, ma del modo di fare cinema, con quale estetica, quale etica, quale tipo di economia. Un soggetto politico può essere estremamente commerciale come ci insegnano i film di Hollywood, mentre ci sono film apparentemente a-politici nel tema, che invece sono estremamente politici: perchè rompono un linguaggio e ne introducono un altro, hanno una dirompenza, una rilevanza artistica mentre invece film che trattano un argomento esplicitamente politico possono rivelarsi assolutamente qualunquisti. Bisognerebbe saper conciliare i due aspetti, quello del soggetto e quello del linguaggio.
Può parlarci del rapporto naturaciviltà nel suo cinema?
Siamo esseri umani perchè abbiamo inventato la civiltà, anche se non so se sia una cosa di cui vantarsi tanto, è la nostra caratteristica, anche se la natura ci circonda, noi siamo parte della natura ma ce ne dimentichiamo e ci consideriamo altro, pur essendo assolutamente dentro questo processo inarrestabile. Nel cinema questa sovraesposizione dei personaggi rispetto al paesaggio che li circonda mi è sempre sembrata falsa. Infatti, faccio molta attenz
ione nei film al rapporto che si instaura tra la figura e lo sfondo, nel senso che per me lo sfondo spesso ha un’importanza uguale a quella della figura o addirittura in alcune scene lo sfondo diventa predominante, quindi ragiono prevalentemente sulla dialettica tra l’elemento umano e quello del paesaggio naturale.
I suoi film sono sempre attraversati da un tensione verso l’assoluto che sembra superare la dimensione delle storie che racconta.
Una persona una volta mi ha detto : “I tuoi film sono epici anche se parlano di storie piccole”. Quest’epicità per me sta nel poter far vedere quello che sta oltre le storie che racconto, in qualche modo mi piace che una determinata storia lasci nello spettatore un eco che duri il più a lungo possibile nella sua memoria.
Noi spesso confondiamo un film con le immagini e i suoni che lo compongono, in realtà io considero un film l’effetto che quelle immagini e quei suoni provocano nello spettatore, creando delle sue immagini, altrimenti non si spiegherebbe la percezione soggettiva tra uno spettatore e l’altro. Io mi preoccupo molto più di quello che non si vede, del mondo invisibile come dicevamo, penso molto di più alle immagini che io vorrei provocare nello spettatore: ad esempio in Garage Olimpo l’immagine dell’orrore è stata elaborata attraverso la sottrazione. Ho scelto di non mostrare la tortura, è lo spettatore che deve cercare quell’immagine perchè non sono io ad offrirgliela.