Un’accusa che viene mossa con molta forza, e spesso non a torto, contro il cinema italiano è quella di aver completamente smarrito il coraggio, la voglia di osare, di spingersi nei territori dell’immaginazione e del desiderio, abbandonandosi senza riserve alla fascinazione del cinema, alla possibilità di associare pensieri, immagini, seduzioni cinefile in completa libertà, senza essere costretti a contestualizzare tutto dentro una cornice realista, dove lo spettatore ha l’opportunità -a dire il vero molto consolatoria – di riconoscersi, di trovare la strada e uscire dalla sala cinematografica senza turbamenti o suggestioni.
Pappi Corsicato, regista napoletano appartenente alla così detta new wave partenopea che all’inizio degli anni novanta provò a ridare ossigeno e creatività a un cimema italiano che si stava ripiegando su stesso fino al suicidio con il gas dentro le famose “due camere e cucina”, cerca ormai da vent’anni – Libera, il suo fulminante esordio, è del 1993 – di proporre al suo pubblico un sentiero alternativo, dove ad imporsi sono proprio l’Immaginazione e il desiderio, in un legame a doppio filo, dove il secondo alimenta in continuazione la prima. Ma se in altri autori esplosi come un fiammata violenta dal focolaio della scuola partenopea – pensiamo in particolare a Mario Martone e Antonio Capuano – a vibrare era un fendente più intenso, duro, rigoroso, rosselliniano in Martone e fassbinderiano in Capuano, Corsicato sceglie la chiave del paradosso, del grottesco contaminato con uno sfacciato, esibito, straniante gusto pop, per cui le derive verso cui ci spinge sono sempre colorate e luminose all’apparenaza, ma nel nocciolo hanno venature oscure e disperate. Questo vale almeno per quanto riguarda la forma dove ogni elemento è costruito per rendere letteralmente l’idea di adesione formale, di superficie ma non superficiale ad un mondo il cui nucleo, invece, è mostruoso e abominevole.
In questo senso il volto di un’altra, fin dalla prima sequenza, si mostra già come una dichiarazione di estetica/etica ben precisa: un bosco sperduto tra i monti, dove a un certo punto appaiano degli “zombie” con il volto fasciato, un incrocio inquietante tra le mummie che ballavano nel videoclip Around the world dei Daft Punk e i “veri” zombie de La notte dei morti viventi di Romero, vestiti come i signori e le signore dell’alta borghesia americana. L’immagine successiva contraddice però questo impatto da film horror, rivelando che quei “mostri” sono gli ospiti di una clinica di chirurgia plastica dove, tra liposuzioni, bagni turchi e improbabili esercizi, si insegue l’illusione della perfezione estetica che la cantautrice catanese Carmen Consoli aveva ben descritto come principale causa della caduta e della rovina della sua Contessa Miseria.
Il rapporto mostruosità interiorebellezza esteriore, un tema non certo nuovo al cinema, ma che il cinema italiano in particolare, così poco sedotto dall’astratto e dal simbolico, non ha spesso frequentato, diventa così per Corsicato un fatto di estetica cinematografica e non esclusivamente un discorso relativo ai personaggi scissi tra quello che sono e quello che appaiono. Questa scissione è presente all’interno dell’inquadrature stesse con i bellissimi e diabolici Alessandro Preziosi e Laura Chiatti che tramano tra orribili creature bendate, con le caldaie, i cessi, i condotti di areazione in contrasto con le sale riccamente arredate della clinica e le camere da letto stile tenuta padronale, il senso di immutabilità e la tendenza verso il disfacimento e la distruzione che inevitabilmente racchiude in sè anche il germe della trasformazione.
E le signore mummificate dalla bende ricordano un pò anche la mamma di Sam, il protagonista di Brazil, capolavoro assoluto di anarchica fantasia. Ma Corsicato compie anche un’esplorazione in particolare sul volto e sul corpo della Chiatti, starlette di un programma tv che promuove il cambiamento esteriore verso la perfezione estetica come ideale di vita, caricandola, attraverso il suo sguardo cinematografico, del peso specifico delle grandi dark ladies del cinema hollywoodiano degli anni ’40 e ’50 (ci è sembrato di vedere in particolare Joan Crawford in Volto di donna o Lana Turner in Il postino suona sempre due volte). Primi e pimissimi piani, fotografia flou, luci soffuse, una serie di cambi di costume degni delle grandi matrone dell’alta borghesia californiana alla Douglas Sirk (qui il pensiero va a Dorothy Malone in Come le foglie al vento). E l’intreccio in cui la Chiatti, vittima di un incidente che è forse l’espressione più alta di quell’estetica dei contrasti di cui parlavamo -le cade un water in testa mentre sta guidando, escogita con il cinico e ambizisio maritochirurgo Preziosi una truffa ai danni dell’assicurzione fingendosi sfigurata in volto, rimanda al mondo del melodramma sirkiano che nutriva la rappresentazione dei sentimenti forti dei suoi personaggi: avidità, desiderio, senso del possesso. Ma come dicevamo Corsicato preferisce il grottesco in chiave comica e quindi l’atteggiamento tende a distanziare, a straniare, e far vedere il meccanismo del genere in simbiosi con l’esasperazione della messa in scena.
Laura Chiatti e Preziosi sono palesemente improbabili come amanti diabolici e tutto gli assurdi personaggi che girano intorno a loro,tra i quali fa piacere rincontrare un’attrice aliena, astratta e viscerale al tempo stesso, inclassificabile dai clichè del nostro cinema, come Iaia Forte nel ruolo della Madre Superiore della Clinica, sta proprio a ricordarglielo a ricordarcelo , rivelando anche l’aspetto giocoso e leggero di un cinema che,non avendo pretese di indagare o confrontarsi con la realtà, come invece riuscivano a fare i melodrammi molto politici e sociali di Douglas Sirk, è pura, libera espressione di un gusto se non di una sensibilità, di un’immaginazione liberatoria che va probabilmente al di là dei meriti reali che abbiamo visto ne Il volto di un’altra e che continuano a fare del cinema di Pappi Corsicato una Sirena solitaria in un mare di Sibille.