Presentato all’ultima edizione del Festival di Venezia, in anteprima stampa a Roma il 30 ottobre scorso presso il cinema Barberini, programmato in anteprima per il 6 novembre al teatro Valle occupato (in una serata sull’immigrazione organizzata in collaborazione con l’associazione A buon diritto) e in uscita nelle sale a partire dal giorno 8, La nave dolce approda nelle acque semistagnanti del cinema italiano proponendo la rivisitazione della storia recente come lente ideale per scrutare le contraddizioni politiche e culturali dell’oggi attraverso la forma primigenia d’approccio alla settima arte di Daniele Vicari, autore di altri documentari quali Uomini e Lupi (1998), Non mi basta mai (1999), Il mio paese (2007).
Realizzato contemporaneamente a Diaz, don’t clean up this blood (2012) il film sembra rispettare nei confronti del “fratello maggiore” – decisamente più blasonato, ambizioso e sponsorizzato – una chiara linea di continuità nel porsi come racconto di un episodio collettivo inscritto all’interno di accadimenti storico-politici più grandi e complessi. Mentre il rastrellamento avvenuto nella scuola Diaz al termine del G8 di Genova del 2001 figurava come la macabra postilla di una manifestazione pacifica repressa nel sangue e nella violenza squadrista delle forze dell’ordine, disorientate dalla miopia e dall’avventatezza delle scelte operative adottate dalle autorità, il respingimento di massa avvenuto a Bari, in seguito allo sbarco di circa ventimila albanesi l’8 agosto del 1991, ha rappresentato per la prima volta, agli occhi del mondo, l’evidente incapacità del governo nazionale di fare fronte all’”imprevisto”, di gestire le situazioni d’emergenza con equilibrio, tempestività decisionale e nel rispetto della dignità della persona.
Se dunque il denominatore comune tra i fatti di Bari e quelli di Genova può essere individuato nella temporanea sospensione dei diritti umani, un altro anello che lega i due avvenimenti è costituito, senza ombra di dubbio, dall’enorme impatto mediatico che gli stessi episodi hanno suscitato sulla rapace curiosità degli operatori televisivi e dei partecipanti, com’è testimoniato dalla mole straordinaria di immagini registrate sui supporti tecnici più all’avanguardia nelle rispettive epoche. Ed è proprio a partire dall’ingente quantità di materiale di repertorio, pazientemente recuperato e visionato, custodito nelle teche delle tv locali e nazionali, negli archivi privati e di stato presenti in Albania, che Vicari inizia il suo viaggio nel tempo e nella memoria collettiva a bordo della Nave Dolce. Questo prezioso patrimonio audiovisivo racconta l’odissea dei ventimila temerari che nell’agosto del ’91 raggiunsero il porto di Durazzo per imbarcarsi su una nave arrugginita priva di viveri e di acqua ma piena di riserve di zucchero importate da Cuba. Le immagini sapientemente selezionate, capaci di restituire la grandiosità dell’evento (di una potenza quasi biblica quelle che descrivono il formicaio brulicante di corpi seminudi, ammassati sulla nave fino a deformarne i contorni) costituiscono la colonna portante del racconto cinematografico; ad esse è affidata la rappresentazione dell’euforia al momento dell’embargo e all’arrivo di fronte alle coste pugliesi, cui fa da contraltare la drammaticità di alcuni dettagli, come il disperato tentativo di arrampicarsi sulle funi o la lunga attesa, fatta di stenti e sconforto, nel porto di Bari, prima della reclusione nello stadio/lager adibito a limbo pregiudiziale. Ma è anche la Storia dell’Albania, dei tumulti di piazza a seguito del crollo del regime comunista, della povertà e della rinnovata speranza, a riempire i fotogrammi di un meraviglioso repertorio selezionato con grande oculatezza nel rispetto del più o meno consapevole progetto drammaturgico originario.
A detta dello stesso regista, infatti: “Lavorare sui repertori cinematografici o televisivi di eventi così importanti è un po’ come lavorare “dentro” la coscienza collettiva. E’ una grande responsabilità: c’è la morte, c’è la disperazione, ci sono i desideri e le frustrazioni di esseri umani in carne ed ossa, c’è la vita vera. Con Benni Atria – il montatore – abbiamo avuto, fin dall’inizio, l’impressione che le nostre troupe fossero state spedite indietro nel tempo a documentare un avvenimento già accaduto. Quindi dovevamo montare le riprese come se fosse il film che aevavamo girato noi, tener fede all’intenzione che muove le inquadrature e allo stupore che le informa per sfruttare la loro forza evocativa”. Questa fiducia incondizionata nel valore di per sé espressivo e documentale dell’intero apparato visivo, incentrato sulla dimensione umana della vicenda e sulla progressiva focalizzazione dello sguardo sul particolare dei volti e dei gesti dei protagonisti, a partire dai totali stupefacenti della nave sovraffollata di corpi fino all’inverosimile, si coniuga con l’esigenza di restituire la verità emotiva dell’esperienza vissuta in prima persona attraverso le parole dei testimoni: le interviste realizzate ad Halim Milaqi, l’ex capitano della Vlora, a Kledi Kadiu, uno dei passeggeri, oggi noto ballerino affermatosi nei nostri talk show; a Eva Karafili, laureata in economia ed emigrata in Italia assieme alla famiglia, traduttrice e badante; a Eduart Cota, ex macchinista delle ferrovie, poi cuoco di professione a Bari vecchia, oltre a quelle rivolte a vari giornalisti e fotoreporter presenti sul campo, accompagnano la narrazione e ne scandiscono le fasi arricchendola con l’emozione soggettiva vissuta in quel frangente e rammemorata di fronte all’obbiettivo della macchina da presa.
Per garantire una continuità emozionale e narrativa nel passaggio da una “confessione” all’altra e per suggerire l’idea di trasparenza e limpidezza delle singole testimonianze, le persone interessate vengono introdotte in uno spazio asettico, una specie di set astratto con sfondo bianco creato ad hoc insieme al direttore della fotografia Gherardo Gossi, mentre la regia lavora sui particolari fisiognomici e gestuali delle figure immerse nell’artificiale non luogo. Come in Diaz, il racconto cinematografico si fonda sul codice stilistico della molteplicità dei punti di vista, sulla messa al bando dell’(anti)eroe quale motore primo e perno dell’intreccio, a favore di una polifonia di sguardi e di voci che restituisce l’evento nella sua complessità, nelle sfumature che spesso si perdono negli schemi tradizionali di scrittura o nei documentari che portano avanti tesi precostituite. Molto interessante anche, a livello estetico, l’apporto della musica elettronica contemporanea di Teho Teardo, ricca di soluzioni espressive originali, sovente mirate a bilanciare il pathos oggettivo di molte immagini con freddi guizzi strumentali dall’effetto straniante.
Senza la rabbia né l’indignazione connaturate all’essenza stessa della denuncia civile, ma con la partecipazione, la passione filologica e il coraggio di rileggere la nostra Storia a partire dalle pagine più buie, il cinema di Daniele Vicari prosegue nella sua azione di lotta alla rimozione degli episodi più gravi e contro
versi degli ultimi decenni nel tentativo di fare luce sul perturbante politico e culturale che nasconde la natura autoritaria del potere in Italia, paese uscito nettamente sconfitto dalle grandi sfide lanciate dalla modernità. E’ un cinema forte, quello dell’autore reatino, che riesce a lasciare il segno quando, come nel caso de La nave dolce, non smette mai di interrogarsi, pur prendendo le mosse dal mito imprescindibile della ricerca del vero.
versi degli ultimi decenni nel tentativo di fare luce sul perturbante politico e culturale che nasconde la natura autoritaria del potere in Italia, paese uscito nettamente sconfitto dalle grandi sfide lanciate dalla modernità. E’ un cinema forte, quello dell’autore reatino, che riesce a lasciare il segno quando, come nel caso de La nave dolce, non smette mai di interrogarsi, pur prendendo le mosse dal mito imprescindibile della ricerca del vero.