Per capire appieno i meccanismi formali e le motivazioni più profonde che guidano l’ultimo film di Bernardo Bertolucci, in apparenza semplice, lineare e diretto nel trasmettere comuni emozioni -già lo vediamo confinato nel piano meno nobile dei film minori-, ci sembra necessario allargare il campo visivo e d’indagine partendo da due motivi presenti nel film. Anzitutto lo scantinato buio, che esaurendo quasi del tutto lo spazio a disposizione dei due protagonisti, attraverso il significato, simbolicamente alto, conferito alla scelta dell’unità di luogo e di tempo, riscatta la costrizione e immobilità in cui viene compressa l’azione, aprendola, appunto, a significati più profondi –e qui non possiamo tacere come tale scelta nasca principalmente da una necessità esistenziale del regista, costretto da anni a una debilitante staticità fisica che viene per di più evocata nella scena iniziale in cui lo psicoanalista appare seduto su una sedia a rotelle. In secondo luogo l’uso della fotografia, sia quella che Olivia pratica nella forma dell’arte -con evidenti debiti al lavoro di Francesca Woodman al quale Tea Falco, interprete della protagonista e reale autrice degli scatti mostrati, sembra apertamente ispirarsi- sia quella relativa al fermo immagine finale che, sgranandosi, ci suggerisce la fissità (malinconica) della fotografia che arresta il tempo (il movimento) della finzione narrativa, così che il cortocircuito tra fotografia e narrazione cinematografica ci riportara con forza il primato (anche feroce) del reale e la sofferenza della perdita (del Tempo).
Olivia, in un momento rivelatore, dice al fratellastro Lorenzo che se riuscissero ad azzerare i punti di vista che li dividono, giudizi, conflitti e guerre non avrebbero spazio d’esistere. Poco prima scorrono sullo schermo una serie di autoscatti di Olivia che, coerentemente, suggeriscono uno spostamento del punto di vista, laddove l’autrice è oggetto e soggetto delle sue stesse fotografie -giocando e talvolta scomparendo, anche violentemente, dentro l’oggetto, abitandolo e allo stesso tempo fuggendolo, e similmente al nascondimento di Lorenzo dietro la tenda del salotto in una delle prime scene, – in tal modo evocando (autobiograficamente) la messa a nudo davanti allo sguardo dello spettatore e più in generale davanti allo sguardo dell’Altro. Tanto più che un autoritratto, poi, ha sempre un valore ambivalente, includendo tanto l’autoaffermazione quanto l’autodistruzione: ossia ciò che la vita è. In ogni caso, questa specie di oggettivizzazione del soggetto nell’esterno –che riporta, di rimando, a una soggettivizzazione dell’oggetto- favorisce evidentemente una lettura spostata sulla dimensione interiore dei soggetti. Sembra che Bertolucci invochi, insomma, una sorta di sparizione dell’Io razionale (che giudica) per favorire una reale e più profonda aderenza all’Altro (che è anche l’oggetto inteso come materia informe e viscerale, primitiva –Olivia si presenta vestita come una gorilla- nello spirito di Bataille), una aderenza che si stabilisce attraverso canali preferenziali quali la sintonia (come ci suggerisce l’uso massiccio della musica culminante in Space Oddity , travolgente e lirico elogio alla perdita del controllo), la connessione (agevolata dall’arte) e il travestimento –che sposta il soggetto dall’ordine dell’Io a quello, decisamente più mosso, del Te per infine approdare, si immagina, nello strano spazio del noi. Tramite la contaminazione, la metamorfosi e, insomma, l’empatia (nella cantina passano i tubi dell’acqua calda di tutto il palazzo, per dire) , Bertolucci sembra voler demolire muri difensivi (Olivia nei suoi lavori dice che li assorbe in sé), differenze di classe e dipendenze egoistiche facendoci (idealmente) tutti partecipi della stessa natura –“that at one point i did not to translate the notes; they went directly to my hands” scriveva Woodman.
Lorenzo, in questa prospettiva, sembra passare dalla difesa narcisistica –ma è anche una difesa, diciamo così, di sopravvivenza all’invadenza nevroticamente normalizzante della famiglia, che infatti lui vede, deforme e ridicola, da dietro un vetro- e dalla conservazione del proprio confine, che da una parte gli permette di affermare una prima autodeterminazione del proprio sé (“il movimento manda in tilt le formiche” dice) ma dall’altra tende anche a rinchiuderlo in una aspra solitudine, alla contaminazione, alla caduta (del Super-Io) e all’annullamento di una parte di sé (Io), che tuttavia, proprio per questo, rinasce nell’incontro con l’Altro (Te). Un’identità, quindi, non chiusa e finita (mortifera), bensì fluida e aperta all’esterno (e quindi anche aperta al frammento casuale della realtà). Un’identità perfino corrotta dal movimento dell’altro -che può provocare tradimenti e ferite-, ma che non è mai (virilmente) immobile bensì sempre in divenire.
Eppure, d’altra parte, non possiamo dimenticarci come ogni fotografia sia anche “un memento mori. Fare una fotografia significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutabilità di un’altra persona (o di un’altra cosa)” –S. Sontag nel noto saggio Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi. E in questo senso, se da oggetto si diventa soggetto della fotografia (che restituisce sempre un tempo oramai passato), ecco che allora si partecipa in modo diretto (e soprattutto simbolico) della propria mortalità. E se la fotografia partecipa della mortalità (della finitezza del tempo umano), il fermo immagine finale sul volto del protagonista, seppur rappresentando un Lorenzo che, cambiato dall’esperienza, alza finalmente lo sguardo e guarda in macchina (investendo lo spettatore della responsabilità d’essere l’Altro), non può che rispondere in modo definitivo e struggente al richiamo che il ragazzo rivolge alla sorella un istante prima: sarebbe bello rifarlo.