Non ci sono misteri da svelare, né emergono folgoranti rivelazioni, ma la visione di Woody, documentario di Robert B. Weide che dopo la presentazione a Cannes arriva nelle sale italiane, è in grado di emozionare i fan della prima ora come di coinvolgere i neofiti.
Riduzione di una versione concepita per la tv (due puntate per 3 ore e 15 minuti complessivi), di impostazione piuttosto classica, il film mostra il regista al lavoro (Weide ha seguito Allen sul set del non troppo ispirato Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni), alternando le immagini del presente con quelle di un fornitissimo repertorio, dalle prime apparizioni televisive di Woody, promettente cabarettista nei primi Anni Sessanta, a interviste d’epoca, spezzoni e backstage di film. Non mancano poi le testimonianze e gli aneddoti di attori, produttori, amici e compagni d’avventura.
L’immagine di Woody Allen, oggi, è quella di un settantacinquenne che ha ancora e sempre voglia di lavorare, di scrivere prima e girare poi. È vero – lo si è detto e scritto più volte – che la qualità degli ultimi lavori non è neanche lontanamente paragonabile a quella degli anni Settanta e Ottanta, ma Woody non può fare a meno del suo mestiere. Sembra davvero che lavorare gli sia indispensabile, per esorcizzare la sua eterna ossessione della morte. A chi gli consiglia di rallentare un po’ il ritmo, di realizzare un film ogni due anni per creare più attesa, risponde che proprio non ci riesce. Lo vediamo quindi alla macchina da scrivere, la stessa da più di 50 anni (“Un modello tedesco, mi hanno detto che avrebbe vissuto più a lungo di me”), ostinatamente refrattario al computer: al rapido taglia/incolla elettronico preferisce quello artigianale, fatto con forbici e graffette.
Sul set tradisce una certa indole pigra (“Sbrighiamoci, comincia la partita dei Knicks”), e confessa di non avere, rispetto ai più grandi artisti, la mania del perfezionismo, eppure ha sempre il controllo assoluto della situazione, e gli attori si mettono completamente nelle sue mani.
Riavvolgendo il nastro, e ripercorrendo dall’inizio la carriera del maestro newyorkese, si nota però un regista cui non manca l’ambizione di evolversi. Dopo le prime commedie di grande successo, basate ancora sul non-sense e su una comicità fisica, slapstick, dopo le parodie della fantascienza (Il Dormiglione) o dei romanzi russi (Amore e Guerra), Woody sente l’esigenza – parole sue – di sacrificare qualche risata per raccontare con più passione i sentimenti.
È il momento migliore della sua carriera, arrivano capolavori come Annie Hall e Manhattan, drammi alla Bergman (Interiors), fino all’introspettivo Stardust Memories, una sorta di confessione felliniana (evidenti le analogie con Otto e mezzo), che però non viene compreso e apprezzato quanto avrebbe meritato. Nonostante il mezzo flop Woody riparte di slancio e realizza titoli come Zelig, La Rosa Purpurea del Cairo, Hannah e le sue Sorelle, Crimini e Misfatti. Il resto è storia recente, qualche colpo a vuoto, la ripetitività di alcune storie, l’abbandono del set di New York per approdare in Europa, Londra (Match Point, un thriller completamente diverso dallo stile alleniano, è forse il miglior film degli ultimi 15 anni), Barcellona, Parigi…
Evidente inoltre, come emerge dal lavoro di Weide, l’importanza delle “donne della vita” di Woody, vere e proprie muse ispiratrici. La seconda moglie, Louise Lasser, ma soprattutto Diane Keaton e Mia Farrow. Quest’ultima non compare tra i personaggi intervistati, il divorzio è stato traumatico e ha lasciato non pochi strascichi (con Diane Keaton è invece rimasta una solida amicizia), ma diede prova di grande professionalità quando scoppiò lo scandalo-Soon Yi, durante la lavorazione di Mariti e Mogli, riuscendo a completare le riprese. Sembra d’altra parte giusta la scelta registica di non soffermarsi troppo sul gossip e di lasciare fuori campo la figura dell’attuale compagna di Allen (che è invece sempre con lui in un altro documentario, Wilde Man Blues di Barbara Kopple, sul tour della jazz-band in cui Woody suona il clarinetto), focalizzando l’attenzione sulla vita professionale del cineasta newyorkese.
Non manca il contorno di qualche chicca per cinefili, come lo svelamento di un trucco da parte di Gordon Willis, direttore della fotografia di Annie Hall: la scena in split-screen in cui Allen e Diane Keaton parlano con due analisti è girata in realtà in una sola inquadratura, in modo da far recitare insieme i due, divisi da una parete.
Woody Allen: a Documentary (questo il titolo originale del film) non svela, si diceva all’inizio, nulla di nuovo. Si può solo restare affascinati dalla poliedrica figura di un “uomo dal multiforme ingegno”. Un talento comico purissimo capace delle più profonde analisi dell’animo umano; un inguaribile pessimista, convinto della mancanza di senso della vita, che in uno dei più celebri monologhi elenca le cose per cui vale la pena vivere. La definizione più calzante è forse quella di padre Robert Lauder, sacerdote e confidente (nonché una volta intervistatore) di Woody: un Albert Camus reincarnato comico.