“Ma non posso vivere senza di te, Io non riesco a vivere legato a te…”.
Durante la visione del film di Marco Bellocchio Bella addormentata mi sono venuti in mente questi versi della canzone di Simone Cristicchi Legato a te che al primo ascolto sembra che parli di una di quelle storie d’amore impossibili a cui ci ha sentimentalmente educato il cinema di Francois Truffaut (ne con te, ne senza di te), mentre andando oltre e arrivando alla fine si rivela come la storia tra un uomo malato terminale e il macchinario che lo tiene in vita. Quella canzone evocava in filigrana la vicenda di Pier Giorgio Welby e la sua battaglia per il diritto a morire, a smettere di continuare a vivere una vita che non reputava più degna di essere vissuta. Il film di Bellocchio evoca invece un’altra vicenda, quella di Eluana Englaro, forse ancora più controversa e dolorosa, perchè mentre Welby aveva ancora la possibilità di esprimere la propria volontà, Eluana, in coma vegetativo da diciassette anni, aveva lasciato questa dolorosa scelta al padre che conosceva le idee della figlia e sapeva che non avrebbe voluto continuare a vivere in quelle condizioni.
Questa cornice introduttiva è importante tanto per la canzone di Cristicchi che per il film di Bellocchio, perchè anche nella visione di quest’ultimo non ho maturato inizialmente alcuna riflessione o pensiero rispetto alla vicenda della Englaro o al tema dell’eutanasia, ma quello che ho trovato, almeno nelle intenzioni della storia e, in potenza, nelle immagini è l’aspirazione di andare ad indagare un tema più assoluto ed universale come quello dei legami tra gli esseri umani concepiti come corpi impazienti, irrequieti, alla ricerca di un contatto con l’altro che sia più autentico e spogliato dalle maschere e dai condizionamenti della società, della cultura e dell’ideologia.
Il mondo di Bella Addormentata, che fin dal titolo si rifà a un archetipo femminile delle favole, ad un destino di attesa e passività, è popolato da personaggi che ricoprono delle funzioni: la Figlia, il Padre, la Santa, l’Innamorato, il Folle, la Suicida, il Salvatore. Le interazioni tra queste persone sono fortemente condizionate dalle funzioni che ricoprono, dal significato che ogni loro gesto e ogni parola assumono dentro il discorso in cui Bellocchio ci vuole accompagnare, cercando di farci maturare, tramite l’emozione del cinema (luce, suono, associazioni di idee attraverso associazioni di immagini) una riflessione che vorrebbe essere quanto mai profonda ed inquietante sull’interdipendenza delle relazioni, su come non ci siano tanto una predestinazione o un fatalismo a motivare le scelte delle persone, ma vincoli che ci tengono legati gli uni agli altri; e come la volontà di crearli (“con te”) o di spezzarli (“senza di te”) influisca in modo decisivo sulla percezione soggettiva del mondo dentro e fuori di noi. Il problema è che questo discorso rimane sospeso nell’atmosfera rarefatta che si respira dentro il film e le immagini stesse, per quanto tendano ad una suggestione, una tensione da horror esistenziale che ha sempre caratterizzato lo sguardo di Bellocchio, restano involute, quasi ripiegate dentro il determinismo dei personaggi e del loro agire.
Così la casa-mausoleo in cui Isabelle Huppert, la Grande Attrice ritiratasi dalle scene e decisa ad immolarsi sull’altare del corpo paralizzato della figlia in coma vegetativo come Eluana, diventa l’espressione di un’intransigenza, di una deformazione grottesca, un’esasperazione della realtà che esclude completamente l’esterno, anche quando questo, in teoria, dovrebbe far parte del suo spazio fisico ed emotivo (l’altro figlio che vorrebbe fare l’attore e che lei non “vede” e non “ascolta” in senso letterale e metaforico). Un nucleo potente, sicuramente l’episodio più vibrante nella struttura rapsodica del film, che però si perde dentro gli altri episodi, crea delle attese che sono legate proprio alla possibilità di un’immagine folgorante mentre lo sguardo di Bellocchio, assecondando fin troppo il personaggio della Huppert, si chiude a riccio, mancando di prendere una posizione estetica, quella che in questo contesto, parlando di cinema, ci interessa di più, più della posizione etica. Tuttavia questa frattura, questa mancanza di dialettica tra visione e riflessione a volte stride e più spesso irrita, come se l’occhio fosse condotto in una direzione mentre la testa vorrebbe dirigersi verso un’altra.
Al contrario, gli altri episodi sono afflitti da un simbolismo ovvio, sottolineato da dialoghi esplicativi e quasi didattici come quello lunghissimo ed estenuante tra Maya Sansa, tossica con tendenze suicide, e Pier Giorgio Bellocchio, il medico che la “salva” nel corpo e nello spirito e, attraverso uno schiaffo, gesto molto paternale, ne scalfisce la protezione di sarcasmo e disperazione, più costruita dall’astrazione delle parole che da un’autentica sofferenza esistenziale. Per questo non si crede neanche un attimo a quello che dice e quando la mdp crea un campo contro-campo tra lei di spalle che apre la finestra e il suo volto che si affaccia sul mondo, possiamo esseri sicuri che quel duello verbale a cui abbiamo assistito era una pantomima, una recita in cui ognuno era chiamato a intepretare un ruolo, con la stanza di ospedale che sembra quasi lo spazio di una rappresentazione teatrale.
E questo straniamento sarebbe anche tollerato se non ci fosse l’episodio in cui Alba Rohrwacher, attivista e fervente cattolica che crede nella necessità di continuare a tenere in vita Eluana, viene “distratta” nella sua missione dalla scoperta dell’Amore con la stessa forza e passione dell’imperativo del film di Luca Guadagnino di cui era protagonista (Io sono l’amore). Uno sconvolgimento che dovrebbe aprire, squarciare la rigidità ideologica in cui una situazione come quella di Eluana ha spaccato un mondo raccontato da Bellocchio come sprofondato nel fanatismo e nel delirio, visto che anche il personaggio che maggiormente sostiene la libera scelta rispetto all’eutanasia è un individuo psicolabile che trova, nella causa, solo il pretesto per esprime il proprio esasperato narcisismo, alla stregua della madre/martire interpretata dalla Huppert.
Ancora una volta però l’arco del racconto ripiega su un’impennata, un momento di intimità e di verità sulla corda di una situazione costruita, di cui Bellocchio sente l’urgenza di spiegare i segni che ha sparso durante la narrazione: così veniamo a sapere che la radice dell’ostilità della Rohrwacher nei confronti di Toni Servillo, padre e deputato del Pdl, dilaniato da una scelta che lo mette in contrasto con la figlia e con il proprio partito, risiede in quei flashback di una camera d’ospedale in cui entrambi, ma in maniera opposta, congedarono la mogliemadre malata terminale, lei supplicandola di resistere, lui, su richiesta disperata della donna, staccando il macchinario che la teneva in vita.
E la Rohrwacher, in un dialogo orrendamente didascalico, gli dice che ora grazie all’Amore percepisce in un’altra prospettiva l’abbraccio tra il padre e la madre che aveva spiato dalla fessura della porta: non più per quello che è, il risultato di un atto consapevole ad una richiesta consapevole, ma semplic
emente un gesto d’amore, quello che l’Amore che le si è appena rivelato vuole farle vedere.
E poco importa se subito dopo strapperà dalle mani del padre la dichiarazione di voto con tanto di confessione sulla sua vicenda personale, perchè ciò che interessa a Bellocchio non è tanto il conflitto tra lo staccare o non staccare la spina, ma il rovesciamento, anzi meglio l’assunzione di una prospettiva, di una giusta distanza in questa zona minata dove tutto è bianco o nero, per ascoltare e capire prima di giudicare. Tutto dunque è sfumato e diluito, come il vapore che inonda la sauna senatoriale dove si consuma parte del conflitto etico di Servillo, uno scenario abitato da politici che sembrano fantasmi di una Storia remota, caricature senza senso che hanno spazzato ogni possibilità di porsi un quesito morale, loro più che mai funzioni che Bellocchio utilizza per dare una contestualizzazione politico-sociale, anche con cadute nell’ovvietà della battuta facile (“In Italia senza il vaticano non si governa”) che però crea ulteriori fratture e scompensi rispetto alle altre storie troppo chiuse nella contemplazione e nella riflessione.
Forse in realtà l’unica riflessione che desideravo suscitassero le immagini di Bellocchio è contenuta nella conclusione della citata canzone di Cristicchi, senza ambiguità, senza interpretazioni o astrazioni intellettuali
“Vorrei essere libero di finire…”