Cargo 200 di Aleksei Balabanov è di una brutalità così glaciale e un’accusa così fredda al vuoto della malignità umana che vederlo fa venir voglia di rimpicciolirsi dentro ad un nugolo di pellicce di orso bruno o immolarsi direttamente ad una vasectomia totale. Abbiamo evitato scientificamente i capitoli successivi della sua filmografia, ma a Venezia è capitato che, nella furia delle proiezioni in serie e il tetris degli orari, ci imbattessimo nel suo nuovo capitolo ufficiale, Me Too (Ya Tozhe Hochu).
Più che un’ immersione claustrofobica nelle stanze smarrite e perdute della società russa, questa volta l’autore di Of Freaks and Men è come se filmasse una fuga nichilista da tutto, senza gli occhi per guardarsi alle spalle e completamente devota alla strada tracciata da Andrei Arsenyevich Tarkovsky con Stalker.
Dall’analisi della storia della scienza moderna si evince che nonostante i numerosi tentativi degli scienziati, il mistero della capacità creativa è quello che registra ancora il massimo grado di fallimenti nel tentativo di darvi una spiegazione. Così dice Chomsky.
Il caso particolare dell’estro creativo di Balabanov è già inestricabile di suo quando si confronta con omicidi lucidi e deterministi. Vi lasciamo immaginare lo straniamento che può provocare il suo ingresso in territori rigidamente simbolici e surreali.
Me too è un continuo susseguirsi di parti sbagliate, momenti contraddittori e sfilacciamenti estenuanti. Paradossalmente, il passo inadeguato e incompleto di tutto il film, nel suo incorrere asciutto e scoordinato e a tempo di un metal folk inascoltabile, è l’unico che in tutto il festival sia riuscito a creare un senso dell’attesa snervante, ma magnetico.
L’humour russo, misogino e machista, ha qui una rappresentazione repellente e al tempo stesso misteriosa.
Onore a Alisa Shitikova che ha corso nuda per chilometri innevati della steppa mortifera attorno a San pietroburgo.