Pietà è il diciottesimo film di Kim Ki-Duk. Il regista del memorabile Ferro 3 lo ricorda subito prima dei titoli di testa e – messa così – sembra quasi una specie di scusa. Come a dire, abbiate un attimo di pazienza.
In realtà dopo il trauma occorso sul set di Dream e le riflessioni catartiche e regressive di Ariang eravamo noi a sentirci in colpa per non aver ancora finito di colmare i buchi neri che sopravanziamo nei confronti della sua sterminata filmografia. Nel 2004 l’autore coreano vinse qui a Venezia proprio con Ferro 3 il premio per la miglior regia. Otto anni dopo, il suo ritorno al Festival della Laguna con Pietà suona quasi premonitore per la ripresa di una nuova stagione ricca di premi. Tanto più che in conferenza stampa lo stesso Kim Ki -Duk ha ammesso più volte di aver voluto realizzare con quest’ultima produzione un’opera più riconoscibile e destinata al grande pubblico. In uscita anche in Italia il 14 settembre, Pietà in effetti stupisce per la linearità piuttosto sfacciata con cui si distanzia dalla complessità paradigmatica di alcune opere precedenti. Tutto l’incedere della storia non sembra essere coinvolto dai sussulti emotivi e le svolte evocative di Primavera, estate, autunno…. o la Samaritana, ma anzi sembra essere cementificato nelle stanze asfissianti e senza via d’uscita dei cunicoli dei sobborghi più deprimenti di Seul. Il punto di partenza e le ambientazioni sembrano essere quello di Shower di Zhang Yang.
I piccoli bottegai delle vecchie abitazioni delle metropoli asiatiche sono stritolati dal sopravanzare dei grandi grattacieli e i centri commerciali delle città nuove. L’unica alternativa è ricorrere agli usurai spietati e testuiani come Lee Jeong-jin. Robotico e meccanico, il protagonista di Pietà si incunea con un determinismo Schwarzeneggeriano nei laboratori ferrosi delle sue vittime e pare alimentarsi sadicamente anche delle viscere di tutti gli animali che cucina così come di una sua personalissima sessualità rimossa e regressiva. I suoi crimini proseguono quasi automaticamente fino al momento dell’arrivo della misteriosa Cho Min-So che si presenterà come la madre che lo aveva abbandonato alla nascita.
Kim Ki-Duk sembra seguire una strada sin troppo lineare nel percorso che vede crescere il rapporto dei due all’ombra di uno spirito di vendetta sin troppo prevedibile e scontato. Il fantasma di un’accondiscendenza impacciata ad alcuni temi portanti del cristianesimo e la critica necessaria, ma ingombrante all’avidità e la bramosia del capitalismo è come se alla fine schiacciassero l’estro del regista di Ferro 3 che per certi versi rinuncia quasi automaticamente alla potenza evocativa dei suoi movimenti, rifugiandosi solo nelle soluzioni più lineari e d’impatto. La ripresa in mdp dell’incursione negli spazi abitativi estranei possiede ancora l’incedere assolutamente poetico e riconoscibilissimo dell’autore. Alcune scene mantengono anche le proverbiali sfuriate di collera e violenza. Specie quelle contro gli animali. Molte altre però girano un pò a vuoto e alcune tremende, come quelle della masturbazione incestuosa sembrano più lavorare sull’impatto isolato e fine a se stesso più che nella costruzione di una poetica propria e coerente come quella degli altri film. Scriviamo tutto questo comunque, consapevoli che nella pochezza e la scarsità delle proposte dell’edizione di quest’anno Kim Ki-Duk possiede ancora la personalità e il magnetismo per farsi largo nella storia di questa mostra.
Sono molto d’accordo con i limiti che hai trovato Federico.L’ho trovato un film abbastanza di maniera in alcuni, in altri sfiora temi importanti ma tutto mi sembra un pò tirato via stavolta…l’ispirazione un pò perduta