A un giorno e mezzo dall’inizio della 69ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, l’opera più interessante arriva da Le Giornate degli Autori con Stories We Tell di Sarah Polley, attrice canadese vista in diverse pellicole tra le quali Exotica e Il dolce domani di Egoyan e Mr Nobody. Qui al suo terzo lavoro dietro la macchina da presa dopo Away from her e Take this waltz, Stories we tell può collocarsi all’interno di quel documentario autobiografico nel quale il regista colloca se stesso, all’interno di un’indagine personale/famigliare che diviene strumento per l’emergere di nuove (inattese o rimosse) prospettive. Il punto di partenza di Sarah Polley è quello di conoscere qualcosa in più sulla madre, morta quando lei era ancora piccola, e da qui tornano subito alla mente due altri documentari autobiografici: Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi e il folgorante Tarnation di Jonathan Caouette. Ma come molte delle opere in cui si parte di se stessi, progetti che originariamente nascono senza l’intenzione di essere distribuiti per il grande pubblico, Sarah Polley arriva a distaccarsi dalla sua biografia, e quella dei suoi cari, per intraprendere una riflessione più generica su dove possa collocarsi la verità.
Citando inizialmente Margaret Atwood, Stories we tell ci ricorda che una storia non è tale fin quando la vivi, ma diventa una storia a tutti gli effetti nel momento in cui la racconti a te stesso o a qualcun altro. Ma nel procedere dell’indagine emerge un’unica verità: la realtà dei fatti sfugge per l’inevitabile parzialità dei punti di vista, sempre condizionati dai vissuti, dal grado di coinvolgimento emotivo con la persona oggetto di ricordi, dal tempo che inevitabilmente trasforma la memoria e l’assetta alle singole biografie. E così ogni intervistato ha le sue sfumature di verità, le sue convinzioni su come siano andate davvero le cose, il tutto in un procedere che mescola interviste a parenti, conoscenti e persone vicine alla madre, con immagini di repertorio in Super 8, unitamente alla presenza costante di Sarah Polley che in questa indagine per comprendere il suo passato alterna il ruolo di regista a quello di narratrice, protagonista e persino detective di una storia famigliare che porterà alla ribalta inattese rivelazioni.
Sarah Polley si mette così in gioco, non senza ironia e non senza qualche lacuna, mescolando persino realtà e finzione della macchina cinema quando, dopo la seconda parte del film, scopriamo che non tutti i filmati in Super 8 erano originali, ma alcuni di essi ricostruiti con attori che interpretano genitori, amici e famigliari in epoche passate. Con l’utilizzo di ricostruzioni e con l’inevitabile presenza del montaggio, la Polley è ben consapevole dell’inevitabile soggettività e parzialità del lavoro finito, della sua storia che, così come ce la mostra, include o omette parti di parziali verità altrui secondo gli umori di chi ce la sta raccontando. Tutto qui sembrerebbe suggerire, paradossalmente, che il cinema può raggiungere qualche verità, anche se sta affermando che la verità unica non esiste.