Adriano Sofri ha postato, sul blog del figlio, denominato Wittgenstein, un libro di 132 pagine di appunti e documenti per commentare soprattutto il libro di Paolo Cucchiarelli, “Il Segreto di Piazza Fontana” (Ponte delle Grazie) e marginalmente il film di Marco Tullio Giordana, Romanzo di una strage nelle sale in questi giorni, che a quel libro “liberamente” si ispira. E lo ha intitolato “43 anni”, quelli che ci separano dalla Strage — ma anche l’età media degli Italiani presenti nel nostro Paese, quindi di persone che non c’erano all’epoca, che non sanno nulla del contesto e del clima in cui quei fatti si svolsero.
Sofri deve aver compreso che il film, molto più di milioni di carte, documenti e testimonianze, colpirà l’immaginario collettivo dei “quarantatreenni”. E per questo prova a far chiarezza. Ma — temo — invano. Perché il film è la forma moderna di un romanzo e non una cronaca pedissequa o un documentario, come Sofri ammette. Il film di Marco Tullio Giordana non è un film sulla strage di Piazza Fontana, né sulla morte dell’anarchico Pinelli, né sull’assassinio del commissario Calabresi. Ma è un disegno che parte da uno dei momenti cruciali della storia della Repubblica per allungarsi fino ai giorni nostri. E ci racconta del fragilissimo equilibrio — pronto a spezzarsi ad ogni istante — della democrazia italiana, giocata su uomini che hanno servito il Paese, magari a modo loro, ma inseriti in uno Stato che quella democrazia, in buona parte, non ha mai riconosciuto.
L’equilibrio è rappresentato, nel film, da un evidente triangolo di figure: Calabresi, come perno e filo conduttore della storia, e poi Pinelli da un lato, e Aldo Moro dall’altra. Prova ne sia che quando muore Pinelli, e quindi “esce di scena”, stessa sorte nel Romanzo tocca a Moro. Questa è la forma geometrica, la primitiva, che sostiene il racconto. E sembra la storia di tre “brave” persone, che hanno giocato un ruolo sostanzialmente positivo, anche con luci ed ombre nel loro operato (se il peccato di “omissione” prevedesse per assurdo la pena di morte, credo che solo un paio di Italiani si salverebbero dal capestro…). Quasi tre ingenui, che hanno ciascuno per conto loro salvato un pezzetto della storia comune, e che finiscono male tutti e tre.
E il suggerimento forte del film, questo sì veramente struggente, è che la mano che li ha terminati sia sostanzialmente la stessa. Rotto un lato del triangolo, si sfasciano anche gli altri due. Se Sofri avesse voluto dire qualcosa in più, lui che per la Storia e per lo Stato è il mandante dell’omicidio Calabresi, forse si sarebbe dovuto misurare con questo disegno generale, e non sui mille fattarelli (tutti importanti, per carità!) che ha minuziosamente riportato. La conferma che a me si forma nella mente, dopo aver visto Romanzo di una strage, non è di aver capito chi è stato l’autore della Strage, ma che lo Stato italiano non ha mai lavorato per il bene del Popolo italiano, sebbene sempre a vantaggio di un gruppo e a svantaggio di tanti altri gruppi. La conferma di uno Stato arrogante e settario, intrinsecamente golpista e umoralmente fascista. Anche se presieduto da un socialdemocratico come Saragat (ed è rilevante nel film il richiamo a Segni, anche lui tentato dalla sirena golpista come e più di Saragat). Ecco, le storie dei tre uomini ingenui funzionano come cartina al tornasole della negatività delle istituzioni semi-golpiste.
Dico qui forse un paradosso per far comprendere questo che mi pare un punto essenziale del film. Anche Pinelli, nel suo piccolo, lavorava per il bene dell’Italia. Era una figura positiva, nel grande disegno. Le idee dominanti, le forme di organizzazione sociale, hanno una durata storica, ad un certo punto scadono. La democrazia venera la libertà di pensiero perché proprio quella libertà consente di ragionare, sperimentare, discutere di forme e principi, valori nuovi verso i quali la società potrebbe orientarsi un domani. Questo, che è un credo delle democrazie anglosassoni, diventa una barzelletta per quelle latine, una facezia di cui buggerarsi. Diventa “il male” per lo Stato. Disgraziatamente, all’Italia non è stato concesso di avere uno Stato democratico. L’amnistia di Togliatti ha rimesso in gioco milioni di funzionari ex-fascisti che — sciaguratamente — si sono ritrovati nello stesso posto con le stesse mansioni, prima e dopo, ed hanno continuato la loro storia personale, al servizio del potere contro i cittadini. Ma non potevano fare altrimenti, erano costruiti per quello. E il film ci fa assaggiare amaramente questa realtà.
Il Partito Comunista Italiano, grande e voluto assente dal film, non avrebbe mai potuto andare al governo in Italia. Lo Stato lavorava affinché questo non accadesse, con i vari gruppi segreti, il “54”, “Gladio”, e chi più ne ha più ne metta. Probabilmente non con tutta quell’intelligenza e perspicacia che la sinistra e i gruppi extraparlamentari gli attribuivano, ma certamente ce la metteva tutta. E Moro ne fa un accenno nel film: non puoi governare senza e contro milioni e milioni di italiani, sebbene comunisti. Ma è proprio qui che si è innestato il berlusconismo dei nostri giorni, ancora volutamente e ottusamente anticomunista, rivendicando lo stesso arrogante diritto di governare un Paese al di là e contro una gran parte dei propri cittadini. E per fare questo, ha creato un muro, i buoni di qua contro i cattivi di là, dando poi ai buoni un salvacondotto perpetuo per fare qualunque porcheria in barba al diritto democratico. E questa è stata la vera Strage della democrazia, il vero patto criminale, dal quale discendono tutte le stragi reali. La stessa, unica mano. Che sta ancora lì, ci rammenta Marco Tullio Giordana. Sofri, al termine della sua disamina, senza alcuna dimostrazione, rivendica i propri errori come errori personali. Gli pesa troppo, insopportabilmente, la sola idea di poter essere stato manovrato, burattino inconsapevole nelle mani del Grande Puparo. Rifugge dall’idea. Arriva ad aderire alla storica frase di Rostagno alla commemorazione del ’68 a Trento, decenni dopo: “Meno male che non abbiamo vinto”. Anche la storia di Adriano Sofri è tragica, parziale e pertanto rispettabile. Come comprensibile è il livore, l’acrimonia che serpeggia nel suo “43 anni”. Tutto comprensibile. E verrebbe da dire “Tutto sbagliato, tutto da rifare”.
Noi oggi sappiamo che dovremmo ricostruire lo Stato da cima a fondo. Dovremmo fare un grande “reset” generale, ripartire dai principi elementari, dai fondamentali della democrazia, dalle primitive geometriche, per creare un’architettura sostenibile della nostra società. L’infezione mafiosa, la criminalità insita nelle nostre Istituzioni, nella mentalità che pervade i suoi dirigenti e funzionari (di qualunque colore essi siano) nonché gli amministratori, la corruzione spropositata, l’assenza di una solidarietà sociale reale, fanno dello Stato italiano e delle sue Istituzioni un vero e proprio scandalo. Che ha radici in quel passato di cui Romanzo di una strage è un affresco, un dipinto di una delle tante stanze che per anni sono state chiuse e sottratte al suo popolo. No, caro Adriano Sofri, voi no. Ma magari avesse vinto la Democrazia in Italia.