Tutti parlano di Pianese Nunzio, tutti vogliono Pianese Nunzio. “Pianese Nunzio”, prima il cognome e poi il nome in modo un po’ scolastico, un po’ meridionale, un po’ giudiziario, passa tra la folla attraverso un telefono senza fili. Pianese Nunzio diventa il mezzo attraverso cui la camorra può liberarsi di un prete scomodo.
Infatti, in principio fu la camorra; per quanto camuffata da musica alta, canti a squarciagola, con le cuffie da registrazione nelle orecchie. Poi la camorra passa allo sfondo e il film passa, a sua volta, alla pista principale, fino a farla diventare preponderante nella conclusione.
La chiesa (come tematica) fa quindi il suo ingresso in maniera surrettizia, in sordina, in modalità laterale, passando sotto le vesti di – visto il contesto – un’evocazione della superstizione. Sensazione che è ulteriormente confermata dall’importanza di quella che sembra essere la spina dorsale del racconto (la camorra). Un prete di un quartiere disagiato di Napoli, Don Lorenzo Borrelli (Fabrizio Bentivoglio), parte piacentina estranea al sistema camorristico napoletano, combatte fermamente la società corrotta e criminale presso la quale ha da poco preso servizio. A fargli compagnia in parrocchia, un chierichetto di quasi quattordici anni.
Il film però, a un certo punto, partorisce. Sboccia tutto d’un tratto e, allo stesso tempo, lentamente. Indizi della sostituzione di tematica, che sarebbe avvenuta da lì a poco, c’erano già stati, in precedenza: un prete e un bambino che si riposano nello stesso letto a torso nudo; lo stesso prete che rincorre lo stesso bambino e poi, finalmente afferrandolo, accenna a un (troppo) tenero abbraccio. Era la pista dell’abuso sessuale (però consenziente) la vera pista, che inizialmente si fa passare per cliché popolare, come frutto di una credenza facile, fin troppo frequentata.
Qual è il reato maggiore? Quasi quasi ci credi che va bene così, che sia giusto scambiarsi un po’ di sano affetto, accarezzandosi… fuori la gente si ammazza! Capuano mette in scena un ambiguo (nel senso di ambivalente, dubbio) sistema assiologico (che, peraltro, come si è visto, si disvela lentamente), attraverso l’ambiguità stessa del personaggio-prete. E dare un giudizio non è facile. Quello che sembrava il problema diventa una matrioska di problemi, pronta a contenere, a andare nel cuore del male minore. La lunga carrellata iniziale, rasente alle ringhiere con sbarre, parla di un sentimento di prigionia; e aveva già visto molto lontano.
Pianese Nunzio 14 anni a maggio, secondo lungometraggio del regista Antonio Capuano, è un film violentemente napoletano, a partire dall’anteposizione del cognome, ma con un tocco di piacentineria e, dunque, di – visti i parametri – esotico. La parte napoletana del film ci mette dentro la perfetta caratterizzazione dei personaggi, tutti attori napoletani bravissimi (tra i quali anche la solita, magnifica, Rosaria De Cicco, che ha lavorato con Capuano anche su La guerra di Mario), che si esibiscono in un altrettanto valida recitazione a carattere locale (di quelle a cui, altrove, si metterebbero i sottotitoli). I modi di dire dei napoletani del popolo, che si susseguono senza sosta, fanno pensare a una presa di realtà in tempo e spazio reali. Più che un film girato a Napoli e che parla di Napoli è un film dentro Napoli; nei suoi vichi capillari e annidati, dove dilagano un’attitudine neomelodica, peraltro affidata alle ambizioni stesse del personaggio principale (il bambino), urla e mandolini. Le strade sono affollate di tanta musica, musica popolana, i figli sono figli della strada. Le famiglie disgregate vivono in case con porte sempre aperte, praticamente in mezzo alla via, da dove possono entrare tutti, e in qualsiasi momento. Il Rione Sanità, si sente; il sentimento della massa è qualcosa di molto forte in questo film, e tangibile; l’impressione sistematica è quella che ci sia molta più gente di quanta in realtà se ne veda. La confusione della gente per le strade di Napoli è sempre quella della vigilia di Natale a San Gregorio Armeno.
Dal punto di vista espressivo e registico, l’idea che se ne ricava è che il film abbia in sé delle trovate molto vicine a una messa in scena teatrale, che lasciano trapelare l’impostazione e la formazione del suo autore (si veda, ad esempio, lo sguardo in macchina dei personaggi al momento dell’autopresentazione). La perlustrazione dello spazio da parte della macchina da presa che va a recuperare i rientri di campo dei personaggi è certamente una caratteristica che si impone.
Nei film di Capuano troviamo famiglie disperate e madri che perdono l’affidamento dei figli, ed è proprio qui che, forse, il prete riesce a trovare il suo appiglio di beatificazione. A conclusione di un montaggio alternato che ha l’ardire di creare pathos (più patimento e pietà, che tensione in senso stretto), don Lorenzo Borrelli, assente alla via crucis da lui stesso guidata, pronuncia la frase: “nato a Piacenza da genitori ignoti”, parlando di se stesso.
Film di una intensità straordinaria, quasi insopportabile; ed è forse per questo che il regista cerca di spezzarla, di attutirla, con le presentazioni dei personaggi dentro la scena, espediente che interrompe momentaneamente l’azione; o forse è proprio il ritmo sincopato che ne deriva, il ruolo gerarchico esplicitato, che conferisce maggior concretezza alla narrazione, che fornisce la giusta chiave di lettura, il dovuto rallentamento delle emozioni che conduce al finale della tragedia, trattenendola dentro una cornice di realismo che non vuole essere superato dall’intensità emozionale, drammatica, del crescendo narrativo.
L’inizio del film, la città imprigionata, simbolizzata dalla rete inferriata della tangenziale, straripante di vita, che sembra bollire e crescere per liberarsi della gabbia delle convenzioni, è bellissimo.Un prologo che suggerisce e anticipa il tema fondamentale, lo scenario pulsante vivo e carnale della città. Di Napoli veramente, non una città qualunque.
Il tema principale, e non quello fondamentale, credo sia giusto distinguerli, è una storia d’amore; ma non ce n’è una sola, se ne intrecciano diverse e ciò che ne scaturisce è un quadro barocco potente, vitale, energico, rappresentato anche materialmente dalla chiesa e dai suoi spazi osmotici interni ed esterni, dai suoi colori e dai suoi rapporti ambigui con la città e la sua gente, ambiguità ben rappresentata dalla richiesta di un funerale in pompa magna per un capo camorra. Il rifiuto don lorenzo è incidentale, fa parte della sua storia, non di quella della città.
Questo quadro barocco, nel quale la musica e i rumori completano il miracolo dell’amalgama, è dunque, vivo e mutevole; è venato e permeato dal realismo estremo dei vicoli e dalle rappresentazioni quotidiane della disperazione, dall’interazione con la speranza e dalla rassegnazione, dalle figurazioni crude degli adepti alla camorra, dagli omicidi, che colpiscono anche e soprattutto innocenti, anzi l’innocenza (simbolica morte della giovanissima “fidanzata” di Nunzio
Più storie d’amore, dunque, che si intersecano, si intrecciano e infine si fondono nella città. Ma la fine è amara e il fato ineluttabile. È rappresentato dalle istituzioni cieche ed esprime il suo verdetto inappellabile, al quale si inchina la rassegnazione popolare, sacrificando la vittima prescelta. Un’opera d’ispirazione teatrale dunque.
L’amore di don Lorenzo per la giustizia, per la verità, per la bellezza, per il Cristo in cui crede, da cui deriva l’amore per Nunzio, è un amore totale che porta inevitabilmente al sacrificio. L’amore di Nunzio per la fidanzatina, che morirà, anch’esso si iscrive nel circolo della tragedia e l’alimenta.
Il realismo di Nunzio che vive l’amore con don lorenzo soprattutto come rifugio e l’amore per la fidanzata come esperimento di normalità, è il filo conduttore dell’opera a mio avviso, che si snoda infine nella stupenda scena della via crucis sotto una pioggia intensa e in un certo senso salvifica, opposta al cromatismo violento di Napoli e della chiesa.