Abbiamo incontrato Carlo Lizzani a casa sua, per confrontarci con la sua doppia e lunghissima esperienza di critico e regista. Attento al cinema da prima del dopoguerra e poi cineasta che non ha mai abbandonato la critica, Lizzani ha  vissuto la progressiva perdita di prestigio della  critica cinematografica sui giornali, e ha visto trasformarsi il rapporto tra critici ed autori.

È chiaro che la critica sui quotidiani, che significa soffermarsi sul contenuto e sullo stile del film, ha perso spazio e prestigio. Lo dicono gli stessi critici. Una volta chi parlava di cinema sulle pagine dei giornali era il critico. Il colorista lo affiancava facendo interviste, informando il lettore sui film in lavorazione. Ma era visto come un segmento subordinato al prestigio e alla figura del critico ufficiale. Oggi questo si è perso: anche nelle pagine dello spettacolo l’introduzione della televisione ha fatto sì che ci fosse uno spostamento d’interesse e di spazio verso la notizia, a scapito della riflessione critica. Le pagine dello spettacolo, oggi, sono fatte soprattutto dai capiservizio, che decidono anche i titoli: quello più vistoso riguarda sempre un evento piuttosto che una riflessione sul film. Ho frequentato i critici, lo sono stato anch’io (ho iniziato ad occuparmi di cinema come tale) e ho visto e sentito sulla mia seconda pelle di storico e saggista questa perdita di spazio e di egemonia. Per quanto mi riguarda, la critica ha a sua volta parecchi torti. Nel senso che spesso è pigra. Quando, per esempio, individua in un autore ciò che pensa esserne l’identità fondamentale, è difficile che diventi flessibile, che segua le sue evoluzioni, le sue svolte. Recentemente con Ricky Tognazzi abbiamo riletto alcune critiche a La vita agra, che oggi molti critici considerano il mio miglior film. Si parlava di regia frettolosa, di un Tognazzi che con difficoltà riusciva a sollevarsi da quello che essi consideravano il suo ruolo, cioé quello di un comico che sa osservare bene il quotidiano e certi tic, ma che non riesce a diventare un personaggio a tutto tondo.

Crede che questo limite ci sia ancora?

Sì… Ho visto questa pigrizia sofferta da alcuni miei colleghi che non sono stati capiti nelle loro evoluzioni e nei loro cambiamenti.

Forse è la paura di fronte a qualcosa di nuovo, di fronte all’esigenza di trovare delle nuove linee interpretative…

Certo… Ci sono stati momenti in cui dopo aver individuato una griglia interpretativa, non la si è più abbandonata. Il soggetto ha continuato a muoversi ma il pedinamento si è bloccato. Si è ragionato su un campo abbandonato dall’autore. Questa però non è una colpa epocale della critica per cui si possa dire che il giudizio critico ha definitivamente fallito: a volte i critici hanno avuto ragione ad essere pigri: certe svolte sono state velleitarie ed hanno avuto ragione a bacchettarle…

 

La critica serve più agli autori o più al pubblico?

È difficile dirlo. Dipende dal tipo di critica di cui parliamo: se intendiamo quella sui quotidiani, allora credo che serva soprattutto al pubblico. Se parliamo delle riviste che hanno fatto scuola (Cinema, Cahiers du Cinema, Cinemasessanta…), queste servono anche (e soprattutto) agli autori. Perché l’autore stesso, se giovane e in fase di formazione, può capire meglio la strada da prendere. Non è un caso che alcuni autori abbiano perseguito nuove strade partendo dalla posizione di critico. Un autore poi, può essere aiutato e stimolato anche dagli eventuali rimbrotti degli ex colleghi.

 

Qual è la cosa che un critico non dovrebbe mai fare, qual è l’errore che dovrebbe evitare e quale consiglio darebbe a un critico che sta per iniziare?

Un critico dovrebbe sempre, sia pure con poche parole, dare una chiave di lettura del film. Per chiave di lettura s’intende un resoconto che parta da un breve riassunto della trama, non così facile da fare, capace di cogliere le punte del prodotto. È un errore quando questo non viene fatto ed è sbagliato iniziare un discorso critico senza dare prima un minino di orientamento, senza lasciar capire al lettore quello di cui si sta parlando. Altro elemento fondamentale è l’utilizzo di un linguaggio chiaro: quello che i grandi critici hanno sempre avuto. Ci vuole una chiarezza che può anche sconcertare il pubblico, ma che serve a definire con responsabilità la posizione del critico, senza eluderla o mascherarla con falsi pretesti come quello per cui si definisce superficiale un film e non se ne illumina il motivo… perché anche un film non impegnativo può essere preso a modello di un discorso critico.

Quindi chiarezza di giudizio e non solo di linguaggio…

Sì, non solo di linguaggio ma anche di giudizio. Meglio rischiare e sbagliare che non prendere posizione…

Si ricorda qualche situazione in particolare in cui è stato clamorosamente frainteso?

È avvenuto per i film in cui ho vissuto e fatto delle svolte. Per esempio Lo svitato è stato colpito dalla critica perché sembrò, dopo due film come Achtung Banditi! e Cronache di poveri amanti, il cambiamento immotivato di un regista che era stato catalogato, seppur più giovane, come neorealista.  Non è stato capito l’umorismo surreale di Dario Fo… Oggi Lo svitato continua ad avere una vita attiva in moltissime cineteche del mondo, anche perché la figura di Dario Fo è notevolmente cresciuta negli anni. Al contrario ci sono film che io stesso penso di aver sbagliato, per i quali mi aspettavo critiche pesanti, e che invece hanno ottenuto consensi. Un paio di anni fa mi ha chiamato Kezich dopo aver visto in televisione La celestina e mi ha detto che gli sembrava un film di Fassbinder. “Non esageriamo” gli ho detto io … “Guarda che c’è dentro tutta l’epoca che hai descritto prima con Lo svitato e poi con La vita agra. La protagonista che va a Milano e corre dietro al successo e che non vede l’ora di vedersi sulle prime pagine dei giornali, che cerca di diventare vistosa…” La celestina è un film che pensavo di aver sbagliato e che rivisto oggi ha quantomeno un suo valore di rappresentazione di una certa Milano che conosco perché vi ho girato otto film.

Ma lei è romano?

Sì ma conosco Milano molto bene… Subito dopo la liberazione di Roma, non potendo avere il copyright della rivista “Cinema” su cui scrivevamo, (perché era di Vittorio Mussolini), inventammo con De Santis  (che aveva già fatto l’aiuto in Ossessione) e Gianni Muccini un settimanale: #Film d’ oggi”. Offrimmo la direzione onoraria a De Sica, Camerini e Visconti, accompagnandoli con la direzione effettiva di Gianni
Muccini (giornalista professionista). Milano era stata appena liberata, noi avevamo voglia di conoscerla, di vedere da vicino la resistenza: allora si parlava di vento del Nord. Da lì stava nascendo l’Italia dell’editoria, dell’industria… L’editore Ballestrieri, un po’ improvvisato, considerò giusto spostare la rivista a Milano. Quel soggiorno durò un anno (luglio 1945 – luglio 1946), ma ci rimase impresso come il fuoco. La rivista fu poi rilevata da altri. De Santis scelse definitivamente la regia. Milano dal punto di vista cinematografico non offriva grandi risorse, così decidemmo di tornare a  Roma, anche se rimase in tutti noi una grande nostalgia di quella Milano bohemienne.

La rivista aveva anche problemi di distribuzione…

L’editore di “Film d’oggi” creò anche “La settimana” e le due redazioni furono ospitate insieme in un appartamento di Milano. “La settimana” era fatta da Turini, Romeo Giovannini, Ruggero Giacobbi e “Film d’oggi” da noi critici cinematografici. Un po’ per mancanza di mezzi, un po’ per la distanza dalle lavorazioni i due settimanali andarono avanti con fatica…

Era un lavoro o un passatempo?

Era un lavoro. C’era una modesta retribuzione. Nessuno di noi aveva un’altra professione. Fu un rischio. Il cinema di scrittura, il giornalismo cinematografico, le professioni del cinema erano allora un vero rischio perché il cinema italiano era considerato morto. Sapevamo che Rossellini stava girando Roma città aperta, che De Sica stava lavorando, ma nessuno di noi avrebbe scommesso sulle future fortune di questo cinema. Sapevamo che qualcosa di nuovo doveva sbocciare, si era già intuito qualcosa su Rossellini, di De sica avevamo sostenuto l’esordio su “Cinema”, si puntava su di loro, ma si pensava che al massimo avrebbero avuto un modesto posticino nel cinema mondiale, non che sarebbero stati considerati i maestri della nuova cinematografia.

Quanto conta l’incontro tra chi scrive di un autore e l’autore stesso?

In quella stagione, come poi nella stagione della Nouvelle Vague, contava moltissimo. Si è cresciuti insieme, ci si è data fiducia vicendevolmente: chi è diventato cineasta, chi ha continuato a fare il critico…

Come si è portato dietro l’esperienza di critico nella sua carriera di regista?

È la mia doppia personalità. Ho sempre continuato a scrivere. È rinato “Cinema” su cui ho continuato a scrivere, come ho continuato a scrivere su “Film d’oggi”, su “Bianco e nero” … Nel ’55 è uscita la prima edizione della mia Storia del cinema italiano che ha avuto sei edizioni e che fu tradotta in molte lingue… Poi ci fu la stagione di Venezia.

Lei ne è stato direttore..

Teorizzai l’avvento della televisione come occasione per rimettere in discussione i canoni, la misura del cinema: in televisione si può fare ogni sera una puntata di un’ora dal festival di Venezia, pensai… Ragionai sul fatto che mentre per uno scrittore è legittimo scrivere un romanzo di 1000 pagine e per un poeta una poesia di 3 righe, il cinema ha invece finito per essere imprigionato nella sala, come se in letteratura potesse esistere solo il romanzo di 300 pagine o la poesia di ventuno righe. Il cinema è rimasto imprigionato, è diventato sinonimo di sala cinematografica. Ho voluto dare questo strattone sia scrivendo sia mostrando alla Mostra di Venezia film brevi, lunghi e lunghissimi… Come per esempio proiettando alla Fenice 5 ore di Ludwig completo, rimontato dopo la morte di Visconti. Usando il linguaggio televisivo, ho fatto 3 ritratti: Visconti, Rossellini e Zavattini, come se fossero delle antologie delle loro opere con il mio intervento critico… Feci un’antologia del neorealismo: ho continuato a fare critica con il video.

Noi ci crediamo tantissimo a questa idea di fare critica per immagini… La televisione potrebbe ospitare i diversi formati…

Dipende dai committenti… Se la televisione cade in mano a chi ne vuole trarre solo un guadagno immediato, allora siamo messi male… Però Heimat non ci sarebbe stato senza la televisione e La Meglio Gioventù non sarebbe mai nato. Ho sognato tanti anni un film che avesse al centro l’8 settembre e ho fatto Maria José proprio per quello… C’è stata una stagione di illuminati della televisione che hanno finanziato e trasmesso i film di Olmi (in doppia versione, una di due ore per la sala e una per la televisione di tre/quattro ore). Fu una bellissima stagione che forse in altre parti del mondo sta continuando, non sappiamo…

È d’accordo sul fatto che la sala oggi è diventata un fatto abbastanza marginale nella fruizione cinematografica?

Prima si vendevano 800 milioni di biglietti l’anno, ora se ne vendono 100: la sala ha perso il 90% del pubblico ed è diventata marginale. Questo è risaputo. Non è solo colpa della televisione, è cambiato il modo d’impiegare il tempo libero, che è stato risucchiato da altri fattori, anche positivi come i concerti, la musica a basso costo…

Qual è la grande differenza che nota tra la situazione di oggi e quella del passato, ad esempio nel fecondo dopoguerra?

Il neorealismo è stata una rivoluzione, come ho cercato di dire nel saggio su Riso Amaro e nell’antologia sul Neorealismo. Una rivoluzione soprattutto formale ma stimolata e suggerita, messa in opera perché c’erano dei contenuti esplosivi. Il propellente che ha fatto dilagare nel mondo questi film è stata una rivoluzione della forma e del linguaggio: non è bastato portare sullo schermo degli “sciuscià” o dei partigiani perché si rinnovasse o perché si facesse epoca. È stata la novità (anche se inconsapevole) del linguaggio che ha fatto dire a Bazin che il Neorealismo aveva dato la spallata decisiva al cinema classico, al cinema che aveva il canone di Hollywood, del racconto a stacchi brevi, a campi e controcampi. Con il neorealismo esplode il piano sequenza. Non mi stanco mai di ripeterlo perché ancora oggi qualcuno sostiene che il neorealismo è stato solo una scoperta di contenuti roventi, magari ben raccontati, ma non in modo rivoluzionario come invece insisto a dire e come credo la critica abbia oggi acquisito…

I “Cahiers du cinema” hanno dato una spinta forte…

Hanno riconosciuto questa novità di linguaggio e hanno fatto anche un salto ulteriore. Mi ricordo ancora le reazioni di Amidei e di Zavattini ai film della Nouvelle Vague. Sì gradiva questa Francia giovane che veniva fuori da quei film, ma soprattutto ne notarono la novità di linguaggio… Ricordo Sergio Amidei, grande fautore del neorealismo, che mi diceva di andare a vedere il primo film di Godard, a vedere che montaggio faceva…

Quale era il clima del cinema italiano negli anni sessanta?

Nella generazione degli anni ’60, quella di Bertolucci, Olmi, Taviani, Ferreri, Pasolini, c’era ancora  una forte comunicativa, uno scambio fecondo, materiale ed immediato. Ci incontravamo nei caffé e  nelle trattorie anche con pittori, musicisti. Tutte cose che si sono perse. Oggi perfino all’interno delle varie corporazioni c’è un grande isolamento. Mi domando sempre se Moretti e Benigni siano mai andati a prendere un caffé insieme… Mi domando se si vedano, s’incontrino, se frequentino i loro coetanei musicisti, pittori. Questo è grave: non nascerà mai una nuova identità del cinema italiano se non ci sarà questo colloquio che si sente nelle opere, diversissime tra loro, di Rossellini, De Santis, Visconti. La critica è stata pigra quando ha cercato di stabilire se Visconti fosse neorealista o decadente. Se De Santis fosse veramente neorealista o piuttosto barocco o hollywoodiano… Tutto questo è vero, ma i piani sequenza li facevano tutti, la commistione dei generi era tipica di tutti, il fotogramma in cui c’era un’azione in primo piano e un’azione sul fondo appartiene a tutti loro…

Noi sappiamo che i giovani autori giovani di oggi  s’incontrano…

Esulto a saperlo! Per esempio Salvatores in Lombardia, Martone a Napoli sono nati spesso da un collettivo che ha dibattuto, è stato solidale attorno a certi temi, svolgendoli poi con libertà ed autonomia. In questi casi 1+1+1 non fa tre, ma fa 9… È un processo esponenziale che rende il nostro cinema riconoscibile anche all’estero. È vero, ogni tanto vinciamo un Oscar ma non c’è un’identità nazionale… Non esiste più, come spesso avveniva a New York o a Parigi, che  si andava a vedere un film italiano qualunque esso fosse, solo perché incuriosiva come cinematografia, perché era un film italiano… Oggi si va a vedere un film di Benigni o un film di Amelio o di Giordana o di Marra… Non c’è un’identità comune… Le identità italiane in fondop sono due: un’identità che è quella di un cinema che racconta i fatti nostri e un’identità che forse ci viene dal Rinascimento e che nessuna altra cinematografia ha forte come la nostra, che è quella di raccontare i fatti degli altri. Basti pensare a Sergio Leone, a come si è reincarnato in un’epica che non ha niente a che fare con l’Italia, o a Blow up di Antonioni, o a Rossellini che fa La presa del potere da parte di Luigi XIV, che è un capolavoro, o a Germania anno zero che può essere considerato un classico del cinema tedesco. Questa peculiarità non ce l’ha nessuno. Un po’ Wenders, forse, che è andato in giro per il mondo, ma sono casi singoli, delle eccezioni.

Bertolucci?

Bertolucci, certo… Noi saremmo ricchi di due identità. La seconda sta continuando, in qualche caso. Siamo tutti curiosi del prossimo film di Amelio che sta girando in Cina, ma è una storia italiana. O quello del giovane Costanzo, che non ho visto ma che so essere è un buon film e che rientra in questo filone che viene dal Rinascimento, di italiani che giravano il mondo e che lavoravano in tutto il mondo come architetti, librettisti… se l’ultimissima generazione riuscisse.. Spesso la bandiera di questi gruppi è stata una rivista…

Noi vorremmo favorire l’incontro, il dialogo…

Magari!! dico sempre ai giovani che devono uccidere i padri, ma non lo fanno… Ci fanno sempre lavorare…

La critica sembra aver perso di vista l’importanza che ha il cinema come mezzo per raccontare la realtà…

Gli autori migliori, come Giordana e Bellocchio seguono questa strada di lettura del reale… Ma in effetti sento spesso il giornalista che accusa i registi di fare troppi film “intimi”. Osservazioni che sono anche giuste. Ma poi rimangono isolate… Forse non c’è una rivista che se ne fa bandiera. Una cosa è un fenomeno a maglie larghe e altro è un gruppo che prende in mano una battaglia da portare avanti con costanza, che propone dei modelli: la Nouvelle Vague ammazzava tutti, salvando solo Renoir e Hitchcock. A volte bisogna essere cattivi, ci deve essere una rottura degli stili… Spingere a un linguaggio nuovo indipendentemente dai contenuti.

 

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