Anni fa Umberto Eco, riferendosi al film Love story, affermava qualcosa riguardo la chimica delle emozioni e l’idea che bisognasse avere un cuore di pietra per non lasciarsi travolgere dalle emozioni toccanti che quel film concepito solo per commuovere evocava. Parole che bene si adattano all’ultimo film di Ozpetek le cui immagini arrivano dritte allo stomaco enfatizzate dalla forza di suggestione di una colonna sonora accattivante inserita ad hoc su sguardi romantici, gesti di solidarietà amicale, battute garbate, commoventi forme di convivialità della grande famiglia ozpetekiana. L’unica di cui si può disporre quando si è gay in Italia nel Duemila; quella che ti scegli quando la famiglia d’origine ti ha mandato via perché nonostante abbia compreso non ha saputo “condividere” (come viene detto in una battuta del film).
Mentre in Italia impazza il dibattito su Pacs, Dico e su altre questioni eticamente sensibili, Ozpetek nel suo film mette a tema l’urgenza di creare una qualche forma di tutela per tutti coloro che si amano (uomini e donne, uomini e uomini, donne e donne) e per coloro i quali decidono di scegliere per una morte più dignitosa.
Peccato che, nel tentativo di raccontare una storia d’amore che richiami ciò di cui abbiamo detto sopra, sfugga l’angusta angolatura borghese da cui sono guardate tali tematiche. Per esempio, quando gli amici-famiglia si stringono intorno a Davide (uno dei due protagonisti, Pierfrancesco Favino, scrittore di successo) per l’improvvisa malattia di Lorenzo (il compagno) e si ritrovano tutti insieme nell’ospedale a vegliare giorno e notte l’amico malato, verrebbe quasi da dire, alla Moretti, “Ho capito. Ma queste sigarette chi te le ha comprate?”. Oppure quando, dopo la morte di Lorenzo, in gruppo vanno a cercare Davide nella sua villa al mare e decidono di rimanere lì con lui tentando di scuoterlo dal dolore, il desiderio di indagare sulle condizioni (materiali?) che hanno dato vita a quel mondo di incondizionata fedeltà senza un’apparente ragione (forse perché non ci si riesce a separare?) viene eccome. In più si aggiunga che la narrazione passa dall’evoluzione gioiosa a quella drammatica a tinte melò senza scegliere un percorso psicologico-descrittivo che mostri il lento crescere dei cambiamenti che si producono. Le immagini morbide e accattivanti si chiudono su un’assoluta autoreferenzialità di personaggi che abitano in case ricche e belle dove la volgarità e la bruttezza sono bandite, e che passano, tra sentimentalismi e narcisismi, da uno stato d’animo al suo opposto senza alcuna soluzione di continuità.
Sette anni fa, con Le fate ignoranti, Opzetek dava voce a un mondo sommerso mostrando un’articolazione più complessa e compiuta di un gruppo di amici che, scegliendosi in libertà, cercano ostinatamente di sopravvivere e di dare senso alle loro vite stringendosi l’un l’altro. Qui le tante microstorie (quella del giovane poliziotto Filippo Timi e della la moglie, Serra Yilmaz fumantina e passionale; o della tossica autodistruttiva Ambra Angiolini che pensa di esagerare sempre; o quella di Ennio Fantastichini che tinge di amarezza ogni sua battuta) rimangono involute e rischiano di far soffocare anche noi spettatori nella coinvolgente miscela sentimentale che tutto avvolge e che nulla svolge scadendo spesso anche nel già visto.