In pochi si sono degnati in questi anni di accorgersene, ma il periodo natalizio è l’unico momento della stagione in cui l’industria cinematografica italiana presta il massimo sforzo economico e sfarzo caciarone per presentarsi ai nastri di partenza con il migliore imprinting possibile.
Su come poi vengano composti quegli indefinibili oggetti filmici che sono stati nominati nel corso degli anni film-panettone, altrettanto poco si è esercitata la nostra critica,giovane (se ancora ne esiste una visto l’imbolsimento di molte fanzine) e laureata, a smontarne i meccanismi per comprenderne il funzionamento e le finalità, gli orientamenti di massima e le strategie commerciali, presenti come in nessun altro manufatto italico celluloidale, prima durante e dopo la sua realizzazione. Siamo andati perciò ad intervistare uno sceneggiatore di mestiere ed estro come Fausto Brizzi, da anni arruolato nella poderosa armata di Aurelio De Laurentis, nel pieno del suo lavoro di montaggio del sequel della fortunata opera prima Notte prima degli esami.
Ma soprattutto il pubblico, questo sconosciuto per molti analisti, che si accalca agli ingressi delle multisale per consumare la propria razione di divertimento.
Insomma in questo davvero preliminare movimento di avvicinamento ad una analisi approfondita dei gangli dell’odierna industria cinematografica italiana, ci è sembrato obbligatorio scegliere l’occasione in cui questa si presenta con la pompa magna di uno sfarzo certo imparagonabile a quello di quarant’anni fa ma anche all’austera tristezza della fine degli anni ottanta.
Cosa poi intendano i nostri produttori per il vestito delle feste è già un altro discorso, essendo chiara in ognuno di questi prodotti l’intromissione sin troppo invasiva del grande golem che ha rovesciato come un calzino la società occidentale: la televisione.
Questo potrebbe essere già un primo punto di partenza per riflettere sui tre film presentati quest’anno: Natale a New York, Olé, Commediasexy, uno per ciascuna delle tre grandi maison produttive del nostri tempo, ovvero De Laurentis, Medusa (Gruppo Mediaset), Raicinema.
Due su tre di questi marchi fanno diretto riferimento ad azionisti che hanno come compito principale quello dell’intrattenimento di massa; ecco allora forse spiegata la continua osmosi con il piccolo schermo, innanzitutto fornendo ai cine-spettatori volti che può rincontrare la sera stessa all’uscita dalla sala accendendo la tv? Perché altrimenti far esordire nei delicatissimi meccanismi di una commedia di costume non molto brillante per esiti comici, né per originalità, la ragazza (come veniva chiamata dalla squinternata conduttrice) del Grande Fratello Francesca Lodo, come hanno pensato di fare i veterani fratelli Vanzina in Olè? O Natalia Estrada, Elena Santarelli, Elisabetta Canalis, Claudio Bisio, financo il pur volenteroso ed umilmente predisposto a farsi sbeffeggiare dai professionisti Bonolis di Commediasexy? Possibile che persone avvedute ed attente come i capi delle tre grandi aziende succitate non si pongano di anno in anno neanche la domanda che è forse proprio questa osmosi sempre più perturbante tra piccolo e grande schermo a rendere più debole la distinzione tra le due fasi della visione, a svuotare le sale perché il pubblico si è via via disabituato a ricercare un’eccentricità nella visione anziché una consuetudine distratta e onnivora, non trovando più alcuno stimolo nell’atto di vedere ma solo un desiderio di assenza da sé e dal mondo, un desiderio di trovare riposo nell’artificialità oltretutto palese dei format televisivi?
Comunque sia la vera novità di quest’anno risiede nel tentativo di un regista stimato come Alessandro D’Alatri che presta il proprio sguardo disincantato ad una commedia commissionata dal gigante Raicinema, quest’anno priva di una grande film americano da presentare e reduce da una serie di film su cui si era scommesso e che invece hanno deluso le aspettative di incasso (vedi Babel). Se Natale a New York e Olè ripetono schemi consolidati e ravvisabili dallo spettatore sin dai due protagonisti De Sica e Boldi, qui si vede lo sforzo di una via di compromesso tra un modo di pensare al cinema che non si vuole scardinare del tutto e il classico film-panettone. Pur con la presenza di un Bonolis chiaramente proteso, fino alla tenerezza si potrebbe dire, all’imitazione del proprio idolo Alberto Sordi, questo ci sembra il film meglio scritto, in cui i caratteri risultano delineati con maggiore attenzione ed approfondimento, ed in cui ricompaiono quegli oggetti misteriosi nel nostro cinema attuale, i caratteristi, di cui soltanto Carlo Verdone continua a ricordare l’importanza per offrire varietà, velocità e ritmo. Basta vedere le apparizioni di Rocco Papaleo, dell’anziana signora (di verdoniana memoria appunto) che si mostra rapita nell’osservare l’onorevole che tratta il proprio autista come un suo pari.
Forse bisognerebbe, però, a partire proprio da D’Alatri, storicizzare il riferimento alla commedia all’italiana così come essa si delineò negli anni cinquanta e sessanta, perché si tratta di un modello difficilmente ripresentabile oggi, a partire dalle differenze sociali da cui evidentemente bisogna partire, per non tradire almeno il vecchio Aristotele. Allora tra le gag senza storia di Natale a New York e la storia senza gag di Olè, non esiste soluzione se non il garbato assolo di un regista che probabilmente la prossima volta farà altro, lasciandoci così ripiombare nella dialettica tra Boldi-De Sica e Pieraccioni? Certo non si vuole rispondere con una manciata di parole a questioni su cui da anni ci si dibatte senza esiti particolarmente gratificanti, ma almeno averne esplicitato alcuni nodi cruciali, averne reso meglio identificabili alcuni meccanismi di funzionamento.
Se è sempre più invasiva l’influenza degli esperti di marketing sin dai primi vagiti di un progetto, sì da strutturarne ad esempio anche l’andamento di anno in anno (la serie delle vacanze in America, la Spagna che molti riferiscono essere la passione degli italiani al momento), viene da chiedersi quanto margine abbiano ancora i comparti creativi per apportare il proprio sigillo in un dedalo di compromessi tra squarci turistici da inquadrare, negozi da accontentare e prodotti da lanciare, in ossequio al product placement, oggetto misterioso per molti che è però il vero punto nodale di ogni operazione commerciale degna di tal nome. D’Alatri, in un’intervista uscita sull’ultima numero di “Ciak”, lo definisce così: ”Inclusione a pagamento di marchi o prodotti. Per anni è stato proibito, tanto che per l’agenzia pubblicitaria di Casomai ho dovuto usare prodotti immaginari. Ora, grazie a Dio, si può fare come da tempo nel cinema USA e, se in sceneggiatura prevedo una rivista di gossip, posso mettercene una vera.” Rimandiamo alla risposta di Brizzi per sentire un orientamento ed un’interpretazione del product placement diametralmente opposta, forse più realistica ed efficace per comprendere davvero di cosa si tratta e fin dove può arrivare.
Il cinema è ad un bivio da cui nel giro di pochi lustri dovrà sapersi districare, immerso come è in una tempesta mediatica che rischia di sommergerne la ricchezza significante e la potenza immaginaria, e forse anche dagli esiti della nostra pur malconcia industria una qualche virgola dopo lo zero della battaglia pure dipende.