L’olocausto, in un certo senso, è divenuto cinema prima ancora che storia. Prima ancora che il mondo ne venisse a conoscenza e che cominciasse il suo tormentato processo di storicizzazione, il Terzo Reich si è premurato di documentare la mostruosa macchina di sterminio in maniera incredibilmente dettagliata, utilizzando e moltiplicando all’ennesima potenza il potere “osceno” del mezzo cinematografico (per citare Andrè Bazin) di replicare all’infinito un’esperienza che sfugge alla conoscenza umana quale è quella della morte. La stessa reificazione delle vittime, condannate al duplice destino della morte e della sua perpetua rappresentazione costituisce uno degli aspetti costitutivi del delirio nazista e lo consegna alla storia per la sua unicità, con buona pace dello Historikerstreit, il dibattito svoltosi negli anni Ottanta tra i maggiori storici tedeschi circa una possibile filiazione a scopo difensivo dai preesistenti orrori perpetrati dal bolscevismo.
Davanti all’orrore delle immagini documentarie, gli intellettuali si sono interrogati per anni sulla liceità dell’arte di rappresentare la Shoah: a oltre cinquanta anni dal famoso diktat di Adorno (peraltro poi da lui stesso corretto e superato), e davanti al bombardamento mediatico operato soprattutto dalla televisione che ha reso Auschwitz un fenomeno per così dire globalizzato e paradigmatico del “secolo crudele”, la questione si è spostata non più sul se ma sul come.
Da sempre affascinato da quell’estetica della violenza caratteristica del nazismo e della sua consapevole e teatrale messa in scena di sé, il cinema ha affrontato il tema dell’olocausto attraverso il documentario (raggiungendo al contempo vette di poesia con opere come Notte e nebbia girato da Alain Resnais nel 1955 oppure Shoah di Claude Lanzmann nel 1985) oppure inserendolo in filigrana in un più articolato percorso sulla memoria dei sopravvissuti (ad esempio il capolavoro di Sideny Lumet L’uomo del banco dei pegni) o disseminandolo indiscriminatamente e in maniera implicita, contando sul suo drammatico potenziale evocativo per risollevare le sorti e dare dignità a film decisamente scadenti (e qui l’elenco sarebbe davvero troppo lungo). Poche comunque sono state le opere che nel passato hanno osato aprire i cancelli dei campi di sterminio e per questo sono state duramente criticate, come ha dimostrato a suo tempo la feroce polemica francese guidata da Jacques Rivette nei confronti di Kapò di Gillo Pontecorvo nel 1961 e quindici anni dopo quella di Eli Wiesel contro la miniserie televisiva Holocaust accusata di trasformare la Shoah “in una soap opera”.
A partire dagli anni Novanta si è registrata una ripresa di opere dedicate al tema dell’olocausto, principalmente dovuta alla rinnovata necessità di testimonianza sul tema di fronte alla graduale scomparsa dei sopravvissuti. Forte di uno spettatore dalle conoscenze storiche superficiali ma sufficientemente informato dei fatti da riconoscere il potenziale evocativo dell’iconografia, e grazie anche alla distanza temporale dagli eventi, ha scelto la strada del racconto dei destini individuali a scapito dell’analisi storica ed eziologica dell’olocausto. Questo viene presentato come un fatto le cui origini politiche, storiche e sociali rimangono sostanzialmente sconosciute (o almeno non spiegate), e anzi l’interesse si focalizza sui rari casi di solidarietà tra ebrei e tedeschi, eccezioni che vengono in tal modo elevate al rango di regola come dimostrano Il Pianista di Polanski, Rosenstraße di Margarethe von Trotta e soprattutto Schindler’s List. Proprio il film di Spielberg costituisce uno spartiacque tra passato e presente, riaccendendo il dibattito sulla dicotomia tra una presunta cultura “alta” documentaristica identificata con Lanzmann e una più popolare, hollywoodiana che sfida il limite estetico (dicotomia peraltro già superata da tempo da Art Spiegelman nel suo fumetto Maus). Pur nella sua legittimità, rimane il sospetto che la cultura di massa, e in particolare il cinema (la critica ha identificato un vero e proprio genere nello “Holocaust-spielfilm”) sottoponga l’olocausto ad un processo di trivializzazione e spettacolarizzazione che ne sminuisce di fatto la verità storica, riducendolo ad una semplice cornice ove inserire commoventi vicende individuali in cui lo spettatore più trovare una facile e consolatoria catarsi, e in cui la compassione prevale nettamente sulle istanze critiche.