Pensieri di una tedesca ventottenne a partire dalla retrospettiva di Rossellini alla sala Trevi
Il cinema era quasi vuoto, alcune persone anziane, due, tre quarantenni, io quasi la più giovane. Improvvisamente la mia lingua mi sbatte addosso. Gli uomini nel film Roma città aperta portano l’uniforme delle SS. Con precisione perquisiscono la città alla ricerca degli uomini della resistenza, entrano nelle case romane. Sento la mia lingua: è familiare ed estranea allo stesso tempo. Breve e chiara come il segno ben tagliato sulle uniformi di questi uomini: “Aufmachen!” “Los”! “Abführen!” La maggior parte degli attori nel film sono italiani che parlano il tedesco. L’accento sottile fa ancora più effetto: come si interpreta una persona che ti ha fatto male? La resistenza attacca le macchine della Gestapo, che stanno portando i prigionieri al luogo dell’esecuzione. I militari delle SS cadono in ginocchio, la liberazione è riuscita. Qualche minuto dopo la scena della tortura. Istruzioni del capo della Gestapo Bergmann, un tedesco tagliente. Mi muovo insofferente sulla mia sedia. Mi sento come un corpo estraneo in questo cinema. Mi chiedo quanti italiani collegano le memorie più terribili a questa lingua: la paura, l’addio, la morte. Una lingua funesta, militare e dura. Quando la nonna del mio ragazzo romano si ricorda del suo incontro con i nazisti, si ricorda di queste parole. In momenti come questo la lingua divide invece di unire. E io mi vergogno di essere tedesca. Allo stesso tempo odio questo sentimento. Mi guardo intorno. I vecchi immobili. Non sapranno mai quanto può essere bella questa lingua, morbida e ricca.
Il vecchietto davanti di me si addormenta. Sua moglie gli dà una spinta prima che la sua testa si appoggi sulla sua spalla. Un movimento veloce e appuntito, quasi impercettibile. La stanchezza non è permessa in questo cinema. Qualche minuto dopo si vede l’esecuzione di Don Pietro. Un’ultima preghiera, uno sguardo al cielo, poi i colpi di fucile. Il vecchio davanti a me si addormenta di nuovo. Lentamente la sua testa cade da un lato. Questa volta sua moglie lo lascia dormire. Qualche minuto dopo il film è finito. Quando usciamo dal cinema, la donna anziana si gira verso noi e ci racconta di suo marito. È stato nella resistenza antifascista romana, ha proprio vissuto tutto questo: “Stava per finire a Via Tasso, per un pelo. Poi sono venuti gli americani…” Mi guarda fisso con i suoi occhi svegli. Suo marito non parla.
Dopo la pausa andiamo a Berlino, nell’anno 1947. Nell’introduzione al film una voce recita: “Vivono in una tragedia, come se fosse il loro elemento naturale di vita. Non lo fanno per una forza d’animo o convinzione, ma semplicemente per stanchezza.” Quando Rossellini viene a Berlino nell’anno 1947, riprende quello che vede: uomini che sembrano lupi affamati tra i resti sventrati di edifici, ragazzini che vendono sigarette, prostitute e militari, fame e sofferenza. La vita quotidiana postbellica è logorante per un popolo di sopravvissuti alla guerra i quali hanno appena cominciato la lotta per la sopravvivenza. In questo scenario ognuno è vicino solo a se stesso e l’umanità sembra un lusso. Questa lotta non solo è terribile perché c’è fame e buio, ma perché lentamente, nelle piccole decisioni quotidiane si manifesta una perdita di valori umani. Come diceva Don Pietro: “Non è difficile morire bene, ma difficile è il vivere bene.” Tra queste decisioni senza speranza, che non sono decisioni vere, ce n’è una, che rimane nella memoria: il bambino Edmund Moeschke decide di morire. La sua storia finisce prima di cominciare. Germania – anno zero.
Oggi, sessant’anni anni dopo, a Berlino si ritrovano ancora le tracce della distruzione. Nelle mura di tante case ci sono ancora i buchi dei fucili della guerra. Altre case semplicemente sembrano finire a metà, come muri senza finestre, una particolarità che notano tanti stranieri nel panorama berlinese quando vengono qui per la prima volta. Di queste case a metà, divise come tante famiglie e coppie durante la guerra, alcune lo sono a causa dei bombardamenti degli alleati, altre perché si trovavano in prossimità del tracciato del muro. Le finestre verso l’ovest sono state semplicemente chiuse con cemento. Queste ferite visibili del passato sembrano contrastare in modo crudo con la vitalità e l’atmosfera di “inizio“ che tante persone apprezzano qui a Berlino. Io credo invece che ci sia un collegamento tra l’abisso della storia e l’enorme forza creativa che ha vissuto Berlino dalla fine della guerra e, sopratutto, dopo la caduta del muro. Berlino allo stesso tempo è simbolo della fine e dell’inizio, una “Fenice che risorge dalle ceneri“. Forse qui, dove ogni pietra conosce la propria finalità, i cambiamenti di vita per tanti uomini sembrano più possibili che altrove. Quando Rossellini nel 1947 venne a Berlino, riesce a trovare un’immagine che simboleggia perfettamente la follia della guerra. Il suicidio di Edmund non solo rappresenta la voglia di vita repressa in nuce, ma anche l’implosione della storia: quando i bambini cominciano a suicidarsi, l’evoluzione sembra involgersi. Quale immagine potrebbe oggi, sessant’anni dopo l’anno zero, descrivere la Germania in un modo altrettanto valido? Partiamo dal punto zero o invece ci stiamo avvicinando ad uno nuovo? Le immagini valide si fanno trovare solo al momento zero? Quando abbiamo raggiunto un punto zero? La sottocultura berlinese bollente che non si ferma mai, i disoccupati in attesa, i bambini che mancano, la sorveglianza video digitale, un pazzo che durante l’inaugurazione della nuova stazione centrale va in giro con un coltello attaccando la gente, l’erosione dello stato sociale, la violenza antisemita che c’è ancora oggi, che cosa hanno a che fare queste cose con la stanchezza che Rossellini documenta in Germania nel 1947?
Nella storia del cinema tedesco una riflessione più profonda sul nazionalsocialismo è cominciata solamente verso la fine degli anni sessanta. Da lì in poi però, si è cominciata un’analisi critica esasperata che ancora oggi si manifesta attraverso numerosi documentari, testimonianze di sopravvissuti e film di storia dell’epoca del nazionalsocialismo. Questa riflessione quasi ritualizzata sul passato ha avuto effetti diversi sulle generazioni successive. La mia generazione (ho ventotto anni anni) che ha studiato il tema fino all’estremo a scuola, la vive in modo ambivalente. I concetti discussi come “il fascismo” e “il nazionalsocialismo“ per noi sono diventati argomenti per binari morti che spesso – questo è la mia esperienza – portano a vie discorsive fisse e ripetute. Nonostante se ne parli così tanto, però, certe zone di tabù ci sono ancora. È evidente ad esempio nel modo in cui viene discussa la rappresentazione di Hitler nei film. Per alcuni critici tedeschi, per esempio, la figura di Hitler nel film Der Untergang – La Caduta (Oliver Hirschbiegel, Germania/Austria/Italia 2004) sembrava troppo umana. Si temeva che uno spettatore si potesse identificare con questa figura urlante nascosta nel bunker. Quant’è più facile e rassicurante, invece, rimanere negli schemi che separano i cattivi dai buoni, gli aggressori dalle vittime: Hitler come opposto di Gesù e posseduto dal diavolo – come lo riassume l’autore am
ericano Norman Mailer (autore del libro I nudi e i morti, USA 1948) nella sua biografia di Hitler The Castle in the Forest (Random House, USA 2007), in cui riflette sull’infanzia e la gioventù del dittatore. Un esempio attuale di una rappresentazione di Hitler nel giovane cinema tedesco è il film Mein Führer – Die wirklich wahrste Wahrheit über Adolf Hitler (Mein Führer – davvero la verità assoluta su Adolf Hitler, Germania 2007). Nel film satirico, che sarebbe il primo film comico tedesco su Hitler, il regista Dany Levi mostra un Hitler in pezzi divertente per il pubblico. „Adolf“ viene caricaturato come un dittatore stanco, che deve essere motivato in cinque giorni da un personal trainer per poi, a capodanno del 1944, poter mobilitare il popolo tedesco alla lotta finale. Il regista Levi, d’origine ebraica, già aveva oltrepassato un limite con il suo ultimo film Alles auf Zucker (Tutto su zucchero!, Germania 2005), una commedia su una famiglia ebrea stravagante, che è stata molto popolare. Finalmente in Germania si poteva ridere insieme con gli ebrei e sugli ebrei così come per altri esseri umani! Di un film come Mein Führer i miei nonni e anche i nonni del regista Dany Levi sicuramente non potrebbero mai ridere. Un Hitler stanco neanche io lo trovo spiritoso. Mi dicono che Hitler nel loop diventa qualcos’altro e che c’è una stanchezza nella riflessione sul passato. D’altro canto penso che uno sguardo più libero e meno coinvolto direttamente può anche essere una chance per accostarsi al passato da un’altra prospettiva. Nella migliore delle ipotesi la mia generazione non si sente colpevole, ma responsabile. Letteralmente responsabile nel dare nuove risposte per il passato e per il futuro. Il Neorealismo di Rossellini può esserne un esempio: lui si muove al di là di una logica di colpa, la sua volontà è dimostrare il lutto e la responsabilità da più parti. La cosa più impressionante per me è che riesce a stabilire una prospettiva senza pathos sulle cose che vede mentre lui stesso ci sta ancora dentro. Secondo me, oggi, Rossellini riconoscerebbe i punti zero del nostro tempo e ne troverebbe delle immagini valide.
Edmund Moeschke, il bambino, la cui storia finisce prima che possa cominciare, oggi compirebbe settantun’anni anni. Mentre lui decide di mettere fine alla sua stanchezza, il vecchio ed io nel cinema condividiamo queste immagini, lui con gli occhi chiusi, io con gli occhi aperti.
Credo che le nuove generazioni,oggi abbiano quantomeno il dovere di non dimenticare.Può sembrare una frase alquanto retorica,ma la realtà è che aprendo gli occhi al mondo,tutta la crudeltà e lo scempio di un ideologia tanto folle,continui tranquillamente a serpeggiare nel mondo.E’ molto facile continuare per la propria strada occultando il resto del mondo…Il nazismo…Ha cambiato nome…volto…ma la realtà è che è l’uomo la vera “bestia”…