[**1/2] – L’incontro romano con Detective Dee, mystery epico diretto da Tsui Hark, si compie nel segno liquido e inafferrabile dell’acquazzone estivo.
Per non bucare l’anteprima stampa, io e mia moglie decidiamo di sfidare il nubifragio improvviso che si è abbattuto sulla città. Percorrendo Via Nazionale trasformata in un torrente in piena, per nulla protetti da un ombrello simbolico, la visuale ridotta a una manciata di metri in cui gli altri passanti spuntano e scompaiono come fantasmi, ci sentiamo già catapultati sul set di un piovoso film orientale. Arrivati in sala con più nulla di asciutto addosso, devono trascorrere ancora interminabili minuti di supplizio sotto il getto dell'aria condizionata, prima che qualcosa abbia inizio. Non ancora il film, perché si attende innanzitutto l’intervento di Marco “Polo” Mueller, in persona, paladino indiscusso dell’estremo est cinematografico, reduce della conferenza stampa romana di quella che sarà la sua ultima Mostra di Venezia da direttore. Zuppi e infreddoliti, apprendiamo da Mueller della nascita della Tucker Film, qui in qualità di distributrice di Detective Dee, figlia di meritevoli genitori friulani: il Centro di Espressioni Cinematografiche, già organizzatore dell’Udine Far East Film Festival e l’associazione Cinema Zero di Pordenone. Dunque salutiamo con auguri di lunga vita e prosperità la piccola agguerrita Tucker, segno raro di un’inversione di tendenza verso una crescita dell’offerta culturale di qualità e un’auspicabile sprovincializzazione del panorama cinematografico in Italia. Seguono poche parole introduttive all’ultima fatica del maestro di Hong Kong. Mueller scalpita, potrebbe proseguire chissà quanto sui meriti dell’opera dell’amico Tsui Hark, ma è già molto tardi e la prospettiva di due ore piene di proiezione induce qualche nervosismo in sala. Così come questa breve digressione nel privato potrebbe spingere qualche lettore spazientito a lasciarci per scappare su un sito di recensioni mordi-e-fuggi. Veniamo perciò al sodo.
Detective Dee, il mistero della fiamma fantasma appartiene al fecondo genere wuxiapian, “cappa e spada” cinese con venature fantasy, in cui cavalieri erranti, spadaccini volanti, personaggi leggendari della tradizione, affrontano insidie terrene e soprannaturali, padroneggiando arti marziali e poteri magico-spirituali. Il protagonista, detective Dee (la star Andy Lau in forma smagliante) è ispirato a una figura storica della dinastia Tang (618-907 d.c.) Di Renjie, magistrato e uomo politico, divenuto in epoca Ming eroe di racconti popolari, qualcosa a metà tra Sherlok Holmes e il cacciatore di demoni. La scelta della cornice storica che fa da sfondo all’avventura è foriera di allusioni a vicende politiche cruciali ancora scottanti in Cina, Rivoluzione Culturale in testa. D’altronde, l’indagine del giudice Dee, ex-dissidente, scarcerato per far luce sulla serie di morti misteriose di alti dignitari che, come un funesto presagio, minaccia l’ascesa al trono della prima imperatrice donna della storia cinese, svelerà una fitta trama d’intrighi e cospirazioni di corte in cui non è difficile cogliere una metafora universale sull'eterna lotta per il Potere, non diversamente da un dramma shakespeariano.
Pur non rivestendo ruoli di protagoniste come in altri film del regista di Hong Kong, anche in questo caso le figure femminili emergono per complessità e forza di carattere e contendono la scena alle controparti maschili su un piano di assoluta complementarità. L’imperatrice Wu Zetian e la sua giovane protetta Jing’er che accompagnerà Dee nell’impresa, presenze dominanti quanto inafferrabili, entrano a pieno diritto nel pantheon di eroine-guerriere del cinema di Tsui Hark (un’attenzione all’altra metà del cielo che, pur condivisa da altri autori cinesi di wuxiapian, nel caso di Tsui Hark si fa vero e proprio paradigma narrativo).
L’ambiguità e la doppiezza, peraltro, non appaiono intrinseche alle figure femminili del film, ma sembrano giocare un ruolo determinante nel mondo complesso delle relazioni umane e nel confronto tra mondo terreno ed extraterreno. Maschere e dissimulazioni, più che denotare l’ambivalenza malevola di chi vi ricorre, suggeriscono una necessità di adattamento per la sopravvivenza, l’adeguamento alla legge di una natura mutevole per definizione. Così come viene meno la polarità inerte bene-male tanto cara alle narrative occidentali. Seguendo l’antica saggezza del Tao, ma anche le teorie della meccanica quantistica, Tsui Hark tenta di rappresentare una trama nel caos, e ciò non può che avvenire attraverso un principio d’incessante trasformazione.
Flussi. Nel corso delle due ore di film assistiamo a: combattimenti ipercinetici e funamboleschi, in cui la legge della gravità continua sì a esercitare il suo dominio, ma non più incontrastato, perché deve vedersela con l'eterna forza che scorre nella materia dell'Universo; al formarsi e disgregarsi di alleanze, un mondo fluido e instabile in cui anche il vuoto assoluto in realtà è un brulicare di particelle virtuali che si scambiano energia; al dispiegarsi di correnti passionali, dove il confine tra atto d'amore e scontro mortale si fa indefinito: quanti di materia, opposti che si "annichilano" a vicenda.
Tra i maestri del wuxiapian, accanto ai più eleganti e classicheggianti Ang Lee e Zhang Yimou, Tsui Hark, è una figura eclettica, regista e produttore poliedrico (fondatore della mitica Film Workshop che ha rilanciato la carriera di John Woo tra gli altri), innovatore riconosciuto del cinema di Hong Kong, col merito indiscutibile di aver restituito nuova linfa ai suoi generi tradizionali.
Tuttavia, gli ingredienti che si possono apprezzare nel suo cinema – il gusto sfrenato per le fantasmagorie, l’abile definizione degli spazi e delle dinamiche dell’azione nelle scene di combattimento, gli indimenticabili personaggi femminili risoluti e volitivi, l’ironia e il mescolamento dei generi, la capacità di non lasciare mai l’ambientazione storico-sociale sullo sfondo, rendendola parte integrante dell’intreccio narrativo, la meditazione sul ruolo dell’individuo di fronte al potere e sul rapporto tra responsabilità del singolo e “ragion di stato” – tutti elementi presenti e ben dosati anche in Detective Dee, appaiono qui come ovattati, incapsulati in una struttura di scrittura troppo convenzionale e in una forma visiva penalizzata da un uso a dir poco irriflessivo della specificità del digitale. Sul mancato tocco sperimentale, pazienza, Tsui Hark ci aveva abituato a ben altro arsenale di anarchismi visivi, ma esigenze produttive e una più ampia digeribilità commerciale del film devono avergli consigliato prudenza.
Sull’abbandono del 35mm, invece, mi sento più scoraggiato. Sarà solo una mia personale ossessione passatista, ma la ripresa digitale, usata come mero rim
piazzo della pellicola, non rende un buon servizio alla causa del lirismo fantasmagorico, sottrae aura e profondità evocativa all’immagine, connotandola con un marchio di serialità “televisiva”. Mettiamola così: il potenziale di incertezza entropica della pellicola, la sua variabile aleatoria, la sua natura pulviscolare e la sua incessante mobilità analogica ci appaiono dispositivi più adeguati a tentare di visualizzare il flusso del Tao, quell’incessante compenetrarsi dei principi maschile e femminile su cui, sembra suggerirci anche Hark, si fonda tutto, anche la magia cinematografica.